Per molto tempo, Matteo Renzi è stato una forma senza contenuto. E la forma era seducente: la contestazione generazionale di un potere ossificato e nefasto. Essendo sindaco di Firenze, quella contrapposizione colpiva inevitabilmente il potere della locale soprintendenza (enorme, immobile, torbido). All’inizio sembrava che a questa (provvidenziale) pars destruens, sarebbe seguita un’innovazione. Io stesso ho provato a collaborare all’individuazione di una nuova politica del patrimonio storico e artistico, prima interloquendo con i lavori della Leopolda nel 2010, e poi accettando l’invito di Renzi a parlare a quella dell’anno scorso: da quel contributo nacque uno dei 100 punti che dovevano costituire la base di un possibile programma renziano (il 63, intitolato alla «Funzione civile del bello»).
Ma nei mesi immediatamente successivi, Renzi ha sposato la linea diametralmente opposta, quella di considerare il patrimonio non un polmone civile, ma il petrolio d’Italia. Non è certo un’idea nuova: era già in auge in piena epoca craxiana, quando Gianni De Michelis teorizzò che il bene culturale andasse «concepito come convenienza economica». Quando Renzi letteralmente dice (lo ha fatto pochi giorni fa) che “gli Uffizi sono una macchina da soldi”, ripete (anche se in modo caricaturalmente rozzo) ciò che diceva De Michelis.
Questa conversione neo-craxiana è apparsa irreversibile quando il sindaco ha trivellato gli affreschi cinquecenteschi che ornano la più grande sala civica del suo palazzo comunale per far sgorgare il petrolio di un ‘capolavoro’ perduto che potesse alimentare il suo mito personale, e diventare il feticcio di un super-marketing turistico e politico.
Anche se (come era ovvio) non vi ha trovato il Leonardo inesistente, Renzi non ha mollato il ‘suo’ Salone dei Cinquecento. Da un lancio Ansa si apprende che “in occasione di Pitti Uomo, a gennaio 2013, lo stilista Ermanno Scervino sfilerà nel salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio su invito del sindaco Matteo Renzi nell’ambito della collaborazione tra il Comune di Firenze e Pitti Immagine. Il primo stilista ad essere accolto in Palazzo Vecchio è Scervino. Renzi spesso indossa abiti Scervino e sua moglie Agnese li sceglie per le occasioni ufficiali, dalla prima del Maggio Musicale al Ballo del Giglio con il principe Alberto di Monaco”.
Si potrebbe sorridere dello slittamento da Leonardo a Scervino, del complesso da famiglia reale o del candidato-di-sinistra-con-stilista (alla Maria Antonietta: “non hanno lavoro, che vadano dallo stilista!”, oppure “più griffes per tutti!”).
Ma qui preme sottolineare la riduzione di un luogo monumentale comunale a location commerciale per un imprenditore che a sua volta promuove l’immagine del sindaco. Il punto non è la difesa della sacralità dell’arte, né tantomeno la questione dello statuto artistico della moda. Il punto è l’incapacità di comprendere e attualizzare il linguaggio della città e della sua storia. A Firenze ci sono decine di grandi palazzi storici tutt’oggi in mano a persone o ad enti privati: se l’idea dev’essere per forza quella (innovativa!) di mettere a contatto l’arte del passato con la moda del presente, non si sarebbe potuto scegliere il salone di uno di essi?
Il fatto che il sindaco faccia sfilare il ‘suo’ stilista nella maggiore sala del palazzo civico non è una forma di grottesca appropriazione personalistica dei luoghi che simboleggiano il bene comune e la parità dei cittadini? Ve lo immaginate Obama che fa sfilare il suo stilista alla Casa Bianca, o Hollande (o perfino Sarkozy) che fa altrettanto all’Eliseo?
Ai tempi di Firenze capitale, in occasione della prima seduta del parlamento italiano proprio nel Salone dei Cinquecento, un osservatore notò che: “i nostri uomini politici hanno un aspetto lillipuziano ed anche grottesco messi ad immediato confronto con gli omaccioni dipinti da Giorgio Vasari nei quadri murali delle guerre di Siena e di Pisa”.
Almeno da questo punto di vista, la tradizione è rispettata.