Marco Marinucci ha 44 anni. Si è laureato a Genova, lavora a Google e ha fondato "Mind the bridge", la fondazione che aiuta i giovani imprenditori del Belpaese a sviluppare le loro idee. "E' utile forzare le persone a passare un periodo all’estero per capire quali sono le dinamiche che funzionano fuori dall’Italia"
A sentirsi chiamare cervello in fuga lui storce il naso. Eppure Marco Marinucci, 44 anni gli ultimi dieci passati negli Stati Uniti, rientra a tutti gli effetti nella categoria. “Sono finito all’estero per quella che gli inglesi chiamano ‘serendipity’, cioè per caso. Sono sempre stato attratto dal mondo fuori l’Italia, ma lasciare il mio paese non è stata una scelta consapevole. Non c’è stata nessuna fuga e adesso che vivo fuori da tanti anni è interessante vedere che passo la gran parte del mio tempo a guardare l’Italia e supportarla da lontano”. Dopo una laurea in ingegneria elettronica all’Università di Genova e qualche esperienza in Francia, oggi Marco lavora come Business development manager in Google. Cinque anni fa ha dato vita a Mind the bridge, la fondazione con sede in California che aiuta i giovani imprenditori italiani a sviluppare le loro idee.
“L’idea è quella di aiutare i ragazzi del nostro paese ad avere un percorso di crescita utilizzando le potenzialità di sviluppo della Silicon Valley, sia come spazio dove uno si può confrontare sulle innovazioni più interessanti, sia come mercato dove espandere potenzialmente i propri prodotti. Lo facciamo tramite varie attività, per esempio una startup school che organizziamo sei o sette volte l’anno nel nostro spazio a San Francisco. Selezioniamo i progetti con più prospettiva di successo e, tramite una rete di una cinquantina di mentori, li aiutiamo a crescere”. Il settore di riferimento è quello delle startup, le giovani imprese ad alto contenuto tecnologico sulle quali anche il governo italiano ha deciso ora di scommettere con il decreto Crescita 2.0 fortemente voluto dal ministro Corrado Passera. Un segnale che conferma il cambiamento in corso nel nostro paese. “Cinque anni fa il concetto di startup era poco conosciuto, l’Italia era un posto diverso. Adesso aprire un’impresa innovativa è diventata un’attività di massa, un’opportunità, un modo di vivere che sta portando valore e cambiando la forma mentis delle persone. Partire da un’idea e farla diventare un’azienda, costruirsi un lavoro, è tutta energia che può portare crescita e sviluppo anche al paese”. Per questo Marco rifiuta l’idea della fuga dei cervelli, né accetta di essere classificato in quel modo.
“Non mi piace parlare né di cervelli né di fuga, ma di talenti che non necessariamente riguardano la parte puramente intellettuale e che non sempre scelgono di lasciare il paese. La mia storia è emblematica. Bisogna smetterla di raccontare la storia del cervello in fuga e vedere il bicchiere mezzo pieno, concentrarsi sull’altro aspetto dell’equazione e chiedersi come fare perché questi talenti, che temporaneamente o per scelte personali si trovano fuori dall’Italia, possano aiutare da fuori un ecosistema locale”. Eppure lui a tornare in Italia non ci pensa, per motivi prima di tutto personali. Anche se mantiene gli occhi puntati sul nostro paese sa quanto sia fondamentale vivere realtà diverse da quelle del proprio paese, anche solo per conoscere meglio il posto in cui si è nati. “Non consiglio a nessuno di scappare, consiglio a tutti di confrontarsi. Se questo vuol dire trascorrere dei periodi fuori dall’Italia, che sia gli Stati Uniti o qualsiasi altro paese del mondo, ben venga. Vivere all’estero non è facile, non è per tutti, ci sono tutta una serie di problemi anche di integrazione che da immigrato devi vivere. Detto questo credo che sia utile forzare le persone a passare un periodo all’estero per cominciare a capire quali sono le dinamiche che funzionano fuori dall’Italia che non necessariamente conosciamo standoci dentro”.