Nel suo terzo giorno il Festival di Roma svela i suoi due film a sorpresa in concorso: il primo, 1942 di Feng Xiaogang, è stato presentato in sala, il secondo è stato annunciato e segna il grande ritorno di Johnnie To al genere gangster in Duzhan (Drug War). Il neo-direttore artistico Marco Müller non poteva che guardare ancora una volta verso oriente, scegliendo due pellicole profondamente diverse, la prima diretta da un regista molto popolare in patria (è stato il primo a superare il miliardo di yuan con un suo film) e la seconda diretta da un regista molto popolare in occidente che ha contribuito a rinnovare il cinema di Hong Kong.
1942 è l’epico (e lunghissimo) racconto della terribile carestia che colpì l’Henan in Cina durante la Seconda Guerra Mondiale e all’alba dello scontro con il Giappone, e di come il governo centrale abbia ignorato la morte di oltre tre milioni di cinesi durante il colossale esodo. Xiaogang si affida ad attori occidentali di richiamo (Adrien Brody e Tim Robbins) per interpretare ruoli marginali che non sviluppa a pieno: un giornalista che vuole vincere il premio Pulitzer e un prete cattolico. Il film è di per sè imponente e ambizioso, e vede nella ricca messa in scena (con ampi totali che non vediamo più al cinema e che richiamano Sergio Leone e David Lean) il suo punto forte. In conferenza stampa il regista ha rivelato che la produzione della pellicola è stata molto complicata, anche a causa della censura, e che grazie all’autofinanziamento indipendente è stato in grado di portare sul grande schermo questa storia. A fine novembre, comunque, uscirà nelle sale cinesi.
Tutt’altro registro per il ritorno di Larry Clark con Marfa Girl, altro film in concorso presentato domenica. Adolescenti americani molto promiscui sessualmente – è ormai il segno del regista dai tempi di Kids – e che fanno uso di droghe. Siamo nel Texas, al confine con il Messico: reti metalliche, sterpaglie, spazi sconfinati, treni che passano, una cittadina noiosa. Il protagonista è un adolescente molto dolce alle prese con le prime esperienze sessuali. E’ un Larry Clark minore, e forse il suo film più divertente: sembra una vera e propria commedia, non fosse per la classica mattanza finale.
Applaudito dal pubblico e dalla critica il film fuori concorso Populaire, opera prima di Régis Roinsard ancora una volta omaggio francese al cinema americano dopo The Artist (con cui condivide la bella e brava Bérénice Bejo nel cast). I riferimenti principali sono My Fair Lady, più in generale la commedia anni cinquanta, ma anche Hitchcock (i cinefili sorrideranno nel notare una pedissequa citazione di Vertigo – La donna che visse due volte). La storia è quella di Rose Pamphyle, ambiziosa segretaria interpretata da una Déborah François in grado di incarnare l’idale anti pin-up alla Audrey Hepburn. Accetterà la sfida del suo datore di lavoro, il fascinoso Louis (Romain Duris), e si farà allenare per vincere i campionati mondiali di dattilografia.
L’altro protagonista della giornata è stato Carlo Lucarelli con l’adattamento del suo romanzo L’isola dell’angelo caduto, presentato nella sezione competitiva Prospettive Italia. 1925: Mussolini sta prendendo definitivamente il potere. Un commissario leggermente disilluso viene trasferito su un’isola; dopo un anno di permanenza, e con la moglie depressa, si troverà a dover risolvere una serie di inquietanti omicidi. Uno dei film meno riusciti visti finora al festival, anche per l’interpretazione retorica di Giampaolo Morelli. In conferenza stampa lo stesso Lucarelli ha risposto ai detrattori che l’importante, per lui, è che il film sia venuto come voleva: “se il risultato è pasticciato, la colpa è mia, e calcolando che il romanzo originale, la sceneggiatura e la regia sono mie, devo dire che non ho fatto altri danni se non a me stesso”.
In chiusura di giornata, mentre sul red carpet sfilavano Adrien Brody e il cast di 1942, ecco il grande ritorno (nella sezione CinemaXXI) del visionario Peter Greenaway, che ha presentato il suo Goltzius and the Pelican Company, storia del contratto tra un mecenate delle arti e l’incisore olandese Hendrick Goltzius. Ancora una volta, la profondità di messaggio dell’opera di Greenaway è straordinaria, veicolata da dialoghi sofisticati ma brillanti: una metafora leggibile e declinabile agli ambiti più vari, dal cinema stesso alla religione, passando per la politica e la morale.
A cura di BadTaste.it – il Nuovo Gusto del Cinema