E’ un tesoro sommerso, opere d’arte che non vedrete mai, conservate nelle segrete stanze dei musei italiani. Migliaia e migliaia di tele, quadri, arazzi, reperti archeologici, custoditi gelosamente nei depositi dei musei, al riparo da occhi indiscreti. Cosa ci sia là sotto lo sanno soltanto i direttori dei musei anche perché in Italia, come denunciato dalla Corte dei conti “non esiste una catalogazione definitiva, specie per i reperti archeologici”. Così come non esiste, per i grandi musei statali, una stima del valore delle opere possedute. Ogni tentativo di valutazione commerciale si è attirato sempre le ire della comunità di studiosi e degli storici e comunque non è mai stato realizzato. Dal punto di vista quantitativo, però, a quello che è esposto corrisponde spesso un uguale numero di opere conservate nei depositi. Un doppio museo, quindi.
Negli Uffizi, ad esempio, in quelle che il direttore Antonio Natali preferisce chiamare “le stanze della riserva” sono conservati oltre 2000 dipinti con circa 1800 autoritratti. Il viaggio nelle sale immaginarie Alla Galleria nazionale di Arte antica di Roma i dipinti esposti sono 500, quelli in riserva 400. Se ci fossero più spazi, più risorse, una politica culturale più attenta, il tesoro potrebbe venire alla luce. Come nel nostro gioco del museo immaginario.
Nella prima sala abbiamo collocato la Sacra Famiglia con Giovannino di Beccafumi, opera del 1520 attualmente collocata nei depositi degli Uffizi in attesa del restauro delle sale.
Poi potremmo osservare un Mannozzi del 600 e il Trittico d’Agnolo Gaddi.
Poco più in là si potrebbe contemplare Alessandro Pieroni (1550-1607) fino ad arrivare al ritratto del Granduca Cosimo I di Ridolfo del Ghirlandaio.
Il nostro museo immaginario, in realtà, in parte esiste e lo organizza lo stesso Natali nel progetto “La città degli Uffizi” che utilizza opere conservate nei depositi per esporre nei luoghi da cui le opere o gli artisti provengono. E così i capolavori citati sono stati ammirati a Bagno a Ripoli, all’Impruneta, patria del Pieroni mentre il Beccafumi della nostra copertina ha fatto bella mostra a Santo Stefano di Sessanio (l’Aquila) nel gemellaggio con le zone colpite dal terremoto, significativamente chiamato “Condivisione degli affetti”.
Non può invece essere più visto I giocatori di carte di Bartolomeo Manfredi, del 1618, distrutto irrimediabilmente dalla bomba mafiosa del 1993. Oggi se ne sta in disparte appoggiato a un muro, oramai inesistente salvo qualche cerotto sulle poche zone di colore: “E’ un pezzo della nostra memoria, non potevamo gettarlo via”.
La Collezione Rezzonico, 1682, composta da Autoritratti, è stata utilizzata nella mostra “I mai visti” o rganizzata sempre dagli Uffizi. Poi è tornata a riposare in attesa dell’ampliamento del museo fiorentino.
A Roma, invece, grazie allo “sfratto” del Circolo Ufficiali, avvenuto nel 2005, la Galleria Nazionale di Arte Antica ha potuto far venire alla luce un Perugino che fino al 2009 era custodito nei depositi.
Una stanza per i fiamminghi “Se avessimo altre stanze potremmo però allestire una mostra permanente dei pittori fiamminghi” spiega Anna Lo Bianco direttrice del museo di Palazzo Barberini. Oltre al Perugino, la Galleria ha potuto esporre anche Mattia Preti, Tasserotti o i Caravaggeschi. Eppure, nel caldo confortevole dei depositi, alloggiano ancora grandi opere, come quelle di Paul Brill, pittore fiammingo del 500.
Per valorizzare questo tesoro,però, non ci si può affidare solo alla buona volontà dei direttori che, come Natali agli Uffizi, guadagnano 1800 euro al mese: “Ma non rimpiango nulla, dice, per me è il lavoro più bello del mondo”. Servono una politica culturale, fondi, risorse. Si pensi al Louvre di Parigi: 60 mila mq espositivi e 8 milioni di visitatori l’anno, (con 40 milioni di euro di entrate) per il museo che espone La Gioconda; 6100 mq e 1,8 milioni di visitatori l’anno, con un ricavo di 8,6 milioni di euro, per chi conserva Botticelli o Giotto.
I lavori per i Grandi Uffizi (che porteranno a oltre 12 mila mq la superficie espositiva) nonostante siano cominciati da anni (ma non dipendono dal direttore del museo) sono ancora fermi al primo lotto, e anche il sindaco Renzi ha denunciato la mancanza di fondi. Ampliare gli spazi, ovviamente, non è la soluzione magica. Ci sono problemi di valorizzazione più generale.
In Italia, tranne il complesso del Palatino e del Colosseo, Pompei, gli Uffizi e la Galleria dell’Accademia (dove c’è il David di Michelangelo), nessun altro museo ha superato nel 2011 il milione di visitatori. Esistono musei come il Palazzo reale di Pisa o il Museo archeologico di Venafro che non superano le mille visite all’anno. L’arte passa soprattutto per i “grandi eventi” e le sponsorizzazioni private. Il pubblico deve vedersela con i tagli e la sciatteria.
Tra il 2003 e il 2005 l’Italia spendeva 2,17 miliardi per la cultura, lo 0,23% del Pil. Nel 2011 è scesa a 1,4 miliardi, lo 0,18%. Eppure, senza scomodare le “balle” di Berlusconi secondo il quale “l’Italia ha regalato al mondo il 50% dei beni artistici tutelati dall’Unesco”, il nostro paese è comunque in cima alla classifica dei Patrimoni dell’umanità totalizzando il 5% di quello mondiale. Ma a questa cifra non corrisponde un’adeguata politica culturale che potrebbe essere anche redditizia. La spesa media europea è del 3% e in Francia solo per il Louvre si spende quanto per tutti i musei italiani. In Italia gli addetti alla cultura, tra professioni “artistiche” e “tecniche”, sono circa 400 mila.
Valorizzare la cultura, quindi, fa parte della politica complessiva e richiede una qualche visione. “Portare un Leonardo a New York può farci guadagnare un milione di dollari ma non significa essere buoni manager” spiega ancora Natali. “Se davvero vogliamo valorizzare il “petrolio” italiano, allora occorre ripartire dalla scuola e da una diversa etica in cui si riscopra la sacralità dell’opera d’arte”.
Un discorso impegnativo in un Paese in cui i massimi vertici della Cultura mettevano a capo della Biblioteca dei Girolamini un personaggio che invece di curare i libri li rubava per rivenderseli.
Il Fatto Quotidiano del Lunedì, 12 novembre 2012
(Foto Lapresse)