Cultura

La canzone d’autore è morta. O forse siamo diventati sordi

C’è una sorta di sadismo involontario nell’uscita contemporanea, proprio questa settimana, dei cofanetti dedicati a Fabrizio De André e Giorgio Gaber. I due apici, insuperati e insuperabili, della canzone d’autore italiana. Viene la voglia malsana di azzardare un paragone tra ieri e oggi. E il presente non ne esce bene. 

Il dibattito va avanti da anni. Da una parte gli ottimisti irriducibili (“Il cantautorato gode di ottima salute”), dall’altra i disfattisti veri e presunti (“Il cantautorato è morto”). Nella babele di prese di posizioni, qualche punto fermo c’è. Alcuni luoghi storici del cantautorato, su tutti il Premio Tenco, agonizzano. Per mancanza di fondi, ma pure di idee. Quello che è stato per decenni un raduno in grado di coniugare elitarismo e convivialità, tra artisti pensosi e dopofestival alcolici in cui tutto poteva accadere (e accadeva), rischia ora di divenire una riserva indiana. Per giunta senza indiani.

E’ poi inesatto sostenere che i nuovi cantautori non ci siano. Al contrario: numericamente sono aumentati. Solo che in pochi se li filano. Da una parte i grandi vecchi, saturi di passato e un po’ orfani di presente, con l’ispirazione legittimamente consunta. Dall’altra nomi che restano di nicchia anche se altro meriterebbero (Paolo Benvegnu), meteore vivide ma dal fiato corto (Le luci della centrale elettrica), sopravvalutazioni tenere (Dente), ensemble meravigliosamente folli (Il Pan del Diavolo) e progetti che qualcosa da raccontare ce l’hanno (Stato sociale, Teatro degli Orrori, Samuel Katarro). Nel mezzo, quaranta-cinquantenni che raramente deludono (Bersani, Silvestri, Turci, Afterhours) e di recente hanno saputo stupire. Tipo Giulio Casale, Niccolò Fabi e Marina Rei.

Tra un Fossati che ha abbandonato coerentemente la scena perché non aveva più nulla da dire, o così credeva, e un Guccini che – per fortuna – torna sulla scena musicale dopo tanta attesa, si avvista un Conte (mai troppo lodato) ancor più rarefatto. Un Battiato addetto alla cultura. E un Capossela, espressione perfino eccessiva di talento, che dopo Ovunque proteggi (forse l’album italiano più importante degli ultimi dieci anni) sta arrancando. Ora rifugiandosi in cd minimali, ora innamorandosi – solo lui? – di progetti troppo ambiziosi. 

Il problema del cantautorato italiano, oggi, non è che manchino le idee, ma che siano sempre meno quelli disposti ad ascoltarle: più ancora, a cercarle. Non basta dire che “nei Settanta c’erano più stimoli”. Vero, ma asserirlo è analisi comoda. Nonché parziale. Quel decennio affollato coincise con una deliberata sopravvalutazione della figura del cantautore. Le contestazioni erano continue. Gaber veniva quasi lapidato duranteQuando è moda è moda, De Andrè trattato da giuda perché accettò i soldi della borghesissima Bussola (o perché si “sporcò” con il progressive della Pfm). E De Gregori – anche lui in uscita col nuovo disco – fu addirittura processato dagli “autonomi”. Se oggi di ciò che pensano i cantautori frega poco, ieri interessava troppo. Al punto che Edoardo Bennato, tanto bravo agli esordi quanto rapido a smarrirsi (vale pure per Alberto Fortis), ebbe buon gioco a ironizzare sull’aura “profetica” del cantautore-vate. I Settanta erano così saturi di miti – e santoni – che qualcuno venne colpevolmente sottovalutato (Rino Gaetano e ancor più Ivan Graziani). Chi ascoltava quel gran genio di Lucio Battisti era di destra, chi si appisolava con Vecchioni aveva le stimmate del bravo comunista. I manichei miopi imperversavano. Oggi di Battisti non ce ne sono, ma in tanti sguazzano sul disimpegno radiofonico-amoroso. Guai a rischiare. E basta essere un Biagio Antonacci per diventare divo. Funzionano ancora il quasi-rock di Ligabue e il “filosofo Smemoranda” Jovanotti: le due facce della medesima medaglia rassicurante. Vasco, che per De André era l’unico erede possibile, ha sempre corso per la sua strada. Zucchero è tornato a buoni livelli con Chocabeck, ma Blue’s è lontano. I dinosauri, chi più chi meno, resistono. E le leve cantautorali degli Anni Zero inseguono – o così dovrebbero – linguaggi diversi. Negli Anni Ottanta, decennio stagnante e vacuo, De Andrè compì la rivoluzione più estrema: una nuova lingua, una nuova musica. Nel suo caso (e di Mauro Pagani), l’esperanto coincise con il dialetto genovese antico, rivestito dai suoni del Mediterraneo. Dopo Creuza de mà, la canzone d’autore non è più stata la stessa. Urgerebbe adesso un nuovo Copernico, poiché tutto è cambiato: il ruolo del cantautore, figura ormai marginale nella società; le forme metriche della canzone, al punto che per molti il nuovo cantautore è il rapper (su tutti Caparezza); e i dischi, che non compra più nessuno. Forse è già stato detto tutto. Forse sono anni intrisi di sonnifero. Forse insistere sulla canzone d’autore è accanimento terapeutico. Di sicuro, di brani-locomotiva lanciati a bomba contro l’ingiustizia se ne sentono pochi. Perché non ce ne sono. O perché nel frattempo siamo diventati sordi.

Il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2012