Il giorno dopo, Nicola mi fa: “Ma l’hai visto lo scontrino?”. No, non ho avuto il coraggio. “Ah, guardalo. Una flûte di champagne 30 euro. Ti rendi conto? Il blend di champagne che ci hanno proposto per cominciare?”. Pazienza, dico io. Eh, mi fa. Finisce così, con una constatazione sconsolata, un’esperienza non delle migliori da Oliver Glowig, celebrato ristorante di Aldrovandi, Villa Borghese, a Roma. Che andiamo a visitare senza prevenzione e avendone provati altri, di ristoranti blasonati. Il giudizio, condiviso, è piuttosto impietoso: conto improponibile, 190 euro e rotta a persona (eravamo in cinque, tre bottiglie di vino), servizio impacciato, clima glaciale, piatti mai sorprendenti, lista dei vini soporifera e piuttosto banale.
Cominciamo dall’inizio. Leggo sul noto sito Tripadvisor una recensione con traduzione automatica dell’”incandescente cuoco da appendere al muro della fama”. Segue il consueto stucchevole balletto di commenti: “Due stelle Michelin meritate”, “Ma no, non vale le due stelle”, “fantastico”, “disastroso”. Ed eccoci dentro l’hotel Aldrovandi, un tempo umile dimora di Enzo Pupo Ghinazzi, ora affollato da una famiglia israeliana e da un gruppetto di giovani dai ciuffi importanti. La macchina te la prende l’omino all’entrata, ma io non lo sapevo e la parcheggio nella traversa dopo. Prendiamo l’ascensore e andiamo giù di un piano: sulla parete, un manifestino con l’incandescente” Oliver in posa pensosa, la mano destra poggiata sul mento. In sala ci riceve una signorina glacialmente sorridente alla quale diamo i cappotti. Mentre leggo la scritta “si richiede abbigliamento elegante”, mi rendo conto di avere il solito maglioncino blu, non particolarmente elegante. Per fortuna i commensali sono all’altezza.
Ci accomodiamo in questa sala ampia, con quell’allure frigido da hotel di lusso (il punto forte è il giardino, ma siamo già nei rigori invernali). Tavolo rotondo e menu. Per qualche minuto si discute di Grillo e di Soldini, e non riesco a decidermi chi sia peggio. Poi, all’improvviso, si avventano sul tavolo come sparvieri tre camerieri, coordinati come un piccolo plotone. Quasi mi spavento. Un po’ disorientati, ordiniamo cinque menu fissi. Troppa fatica avventurarsi nei singoli piatti: due Aurora (citazione di Murnau?) e tre Gloria (citazione di Cassavetes?). Scelgo l’Aurora, con un lieve senso di colpa verso il mio regista preferito, ma anche un po’ sollevato dalla mancanza del piccione. Scorriamo la carta dei vini, divisa per regioni. Giro e rigiro, supertuscan a volontà, qualche Gravner. Nulla di eccitante: una carta banalotta, soporifera, a parte i prezzi, che rimbalzano sull’iride, scuotendolo.
Mi guardo intorno. Biondina caruccia accompagnata da imberbe danaroso. Coppia che si annoia perlomeno dalla metà degli anni Settanta. Signora cinerea. Doppia coppia, senza l’asso. Torno con lo sguardo al piatto. I camerieri sparvieri portano il pane: semplice, integrale o con cipolla? I primi due. Ottimo, nulla da dire. Il cameriere mi fa oscillare un mazzetto di grissini sotto il naso, come bacchette di shanghai. Per qualche secondo rimango indeciso sul da farsi, poi ne sfilo uno e lo appoggio sulla tovaglia.
Ecco il menu Aurora (130 euro), raffiche di piattini con gli assaggi: insalata di puntarelle con alici alla colatura e ricotta; eliche cacio e pepe con ricci di mare; gallinella e lumachine di mare con lattuga romana e purea d’aglio; lombo di coniglio con trombette dei morti e zucca; gelato di erborinato di capra con pere sciroppate e pan di spagna alle noci.
Ed ecco il menu Gloria (150 euro) Gamberi bianchi con caviale, cetrioli e gelatina di zenzero; ravioli ripieni di friarielli e seppie all’aglio, olio e peperoncino; coda di rospo e testina di vitello con sedano rapa e salsa al prezzemolo; petto di piccione con fegato grasso d’oca, crema di cipolla bianca e scalogni alla pancetta; tartufo con gelato al Rum e uvetta in salsa di prugne.
La cena va avanti in maniera un po’ incolore, a parte il dibattito rovente sul (penoso) stato del cinema italiano. Si mangia quasi distrattamente, con qualche soprassalto: un buon inizio, con la freschezza pungente dell’insalata di puntarella. Interessanti ma non convincono fino in fondo le eliche cacio e pepe (omaggio alla romanità) con i ricci di mare. Saporito, disturbante quel tanto da renderlo prezioso, il gelato di erborinato di capra con pere sciroppate e pan di spagna alle noci. Nel mezzo, poco o niente di memorabile. Nel menu Gloria, il più ambizioso, spicca il petto di piccione con fegato grasso d’oca, piatto aggressivo e fuori dagli schemi. Per il resto, calma piatta. I camerieri ci avvolgono nella loro danza frenetica e confusa. Un riccio finisce sulla tovaglia candida e un cameriere abbronzatissimo, con sopracciglio tagliato, fisico da tronista, interviene di corsa per piazzare un tovagliolo a mo’ di pezza, per nascondere la vergogna. Forse non sono all’altezza. Mi accorgo di parlare troppo forte. Assumo un’aria contrita e arriccio le labbra, simulando concentrazione.
Finiamo, con la leggera sensazione di aver sprecato un’esperienza gastronomica e una serata (a parte la compagnia). Quando arriva il conto, scopriamo quanto abbiamo speso, ma senza innervosirci più di tanto, perché il prezzo è nel pacchetto e non è una sorpresa. Quel che non dovrebbe essere compresa è la noia, la sensazione di essere finiti dentro un ristorante di ghiaccio, congelato negli anni ’80. A consolarci (parzialmente) arriva l’omaggio delle zeppole fritte (ottime), memoria della sua esperienza all’Olivo del Capri Palace. Arriva anche Oliver, per quella cerimonia un po’ trita dei saluti e dei salamelecchi finali, dove sarebbe scortese azzardare le riserve e sarebbe ipocrita complimentarsi. Ci si limita a sorrisi impacciati da giapponesi colti da emiparesi e si riprende l’ascensore, con Oliver che ci guarda pensoso, mano sotto il mento.