“Fiume killer travolge un ponte…”. Nella semplificazione giornalistica di un titolo (prima pagina di Repubblica del 14/11) viene riassunto il significato profondo di un paese immerso nel fango, e non in senso metaforico.
E’ molto più facile dare la colpa al fiume. Non a chi ha progressivamente modellato e vincolato il suo percorso entro rigidi argini artificiali; non a chi ha consentito negli anni che si continuasse a edificare senza regole, cementificando e impermeabilizzando superfici sempre più estese di suolo; non a chi ha assecondato il progressivo abbandono degli insediamenti diffusi nelle zone rurali e collinari (tagliando servizi scolastici, assistenziali e di trasporto), favorendo la nascita di nuovi insediamenti sparsi sul territorio (con nuove strade e immancabili villaggi dello shopping) causando l’abbandono delle pratiche di cura, manutenzione e pulizia ordinaria del territorio, dei boschi, dei terrazzamenti, degli argini dei torrenti e dei fiumi.
Sembra non sia mai colpa di nessuno, quando succedono queste cose. Non si tratta solo della rimozione di responsabilità individuali e collettive. C’è anche un problema che, prima o poi, anche in Italia qualcuno dovrà iniziare ad affrontare. Si chiama: politica e organizzazione della gestione del territorio. Noi siamo l’unico Paese in Europa in cui vige una legge-quadro urbanistica risalente a settant’anni fa. Non abbiamo una mappa aggiornata del rischio idrogeologico; non abbiamo nemmeno una mappa aggiornata del consumo di suolo, a livello nazionale o regionale. E questo accade perché le scelte di consumo di suolo sono demandate ai singoli Comuni. Ogni Comune decide quando e come avviare trasformazioni urbanistiche nel territorio: la trasformazione della campagna in cemento diventa opportunità di rendita fondiaria per i privati e, per il Comune, l’occasione più semplice (non certo la migliore) per incamerare risorse attraverso gli oneri di urbanizzazione. Chi rilascia l’autorizzazione costruire non si preoccupa, in quel momento, della perdita irreversibile di un ambiente bioriproduttivo e delle conseguenze ambientali ed economiche originate dal crescente dissesto idrogeologico che ogni singolo intervento urbanistico contribuisce a produrre (nuove strade, nuovi shopping centres, nuovi capannoni della logistica): “così fanno anche tutti gli altri Comuni, quindi se sono tutti colpevoli vuol dire che nessuno è colpevole…”.
Oggi qualunque nefandezza ministeriale viene giustificata con lo slogan “Ce lo chiede l’Europa…”. Perché non iniziamo a recepire, dall’Europa, anche quelle direttive chiare e fondamentali che ci aiuterebbero a costruire un sistema territoriale meno squilibrato e più sostenibile? Parlo delle Linee d’azione indicate agli Stati dell’Unione dalla Commissione Europea nel settembre 12011, per la gestione “risorsa Terra e Suoli”. Obiettivo chiaro: arrivare entro il 2050 al consumo-zero di suolo, attraverso una tabella di marcia di “decrescita” del tasso di urbanizzazione. Obiettivo cauto dicono alcuni (i Verdi tedeschi chiedevano azioni più incisive), comunque raggiungibile solo se in tutti gli Stati dell’Unione – aggiunge la Commissione – si innesta un coordinamento fra realtà locale, regionale e nazionale su alcune linee guida fondamentali e cogenti: definizione di limiti quantitativi di occupazione del suolo; limitazione di nuovi interventi alle sole aree già urbanizzate; possibilità di accedere ai Fondi Strutturali solo se si attivano meccanismi di riduzione del consumo di suolo. Ogni Regione deve attivare un sistema di monitoraggio sul consumo di suolo e linee guida vincolanti per la riduzione del fenomeno della dispersione urbana (sprawl) al quale ogni singolo Comune deve uniformarsi.
Questa è la vera sfida che vecchi e nuovi governi delle Regioni devono affrontare. Strada non facile, ma la storia dimostra che prendersela con il “fiume-killer” non risolve il problema…