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Il linguaggio del gatto, una comunicazione intraducibile

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La ristampa del Dizionario bilingue Italiano-Gatto, Gatto-Italiano, 180 parole per imparare a parlare gatto correntemente (Edizioni Sonda, Casal Monferrato – Alessandria) pone problemi di metodo molto complessi che si possono riassumere nel quesito: esiste una lingua dei gatti e questa lingua è traducibile compiutamente nel linguaggio verbale?

Una traducibilità discutibile sin dall’inizio, della stessa portata dell’“utopia semiologica” che pretende di ridurre il significato della musica al linguaggio verbale. Aveva intuito la soluzione del problema Eduard Hanslick: “La musica è un linguaggio che noi parliamo e comprendiamo, ma che non siamo in grado di tradurre”. Contro l’identificazione musica-messaggio, musica-linguaggio, è opportuno sottolineare che l’espressione verbale non è l’unica forma di espressività comunicativa. La musica, pur essendo comunicativa, non si limita ad esprimere qualcosa nel suo immediato dispiegarsi.

Lo stesso si può affermare con convinzione per il segreto degli occhi delle mie Carlotta e Camilla, con l’universo-universi aperti dai loro sguardi, che moltiplicavano e non riducevano gli effetti del linguaggio verbale. Carlotta e Camilla, da questo punto di vista, erano veramente esemplari: Carlotta, più bella, dolce e sensibile e quasi votata ad una fine prematura nelle sue forme di affettività sentimentale disperata; Camilla, invece, nel suo egocentrismo apparentemente autoreferenziale, ma bisognosa come nessun’altra della comprensione e dell’affetto altrui. Carlotta era il classico caso del ‘gatto melomane’ che ama la musica e la comprende, come rivela Louisa a Eduard nello straordinario racconto di Roald Dahl, dedicato a Liszt.

Gli occhi di Carlotta erano una sorta di specchio ‘interiore’, in cui potevo riconoscermi, in cui ritrovavo le mie predilezioni e le mie idiosincrasie, i miei amori e i miei odi, tutte le sfaccettature dei miei innumerevoli umori. Ricordo ancora quel pomeriggio fatale del 10 gennaio 2006, quando a soli undici anni e mezzo scomparve la mia Carlotta senza che io potessi fare qualcosa. A mia insaputa un improvvido intervento del veterinario ne affrettò la fine. Sono trascorsi quasi sette anni e da allora non sono più riuscito ad attraversare quella via dove è situato l’ambulatorio veterinario e dove si è consumato quello che a tutt’oggi considero un atto scellerato.

Quello specchio si è infranto per sempre e nessun altro riuscirà mai a sostituirlo. Non vi è comunicazione verbale che possa restituirmi quei segreti, quelle complicità. Non potrò mai dimenticare lo sguardo immalinconito di Camilla quando, come colto da un’intuizione premonitrice, sono tornato indietro per salutarla, né quello disperato di Carlotta quando stavo per uscire di casa e che, comunque, riuscii ad accarezzare per l’ultima volta. Ho preso anche in considerazione la possibilità dell’atto estremo della clonazione, ma mi sono reso conto che non avrebbe mai potuto restituirmi le amatissime gattine.

A tal proposito sposo con convinzione la tesi argomentata da Piero Martinetti in un delicatissimo epitaffio scritto per una sua gattina il 5 dicembre 1926: “è morta la gattina grigia di malattia. Era così giovane, graziosa e gentile, anch’essa è nel passato che non torna!” Il ‘passato che non torna’ che cos’è se non una morte irredenta, una morte insopportabile, simile a quelle di Carlotta e Camilla, che ho subito senza poter reagire.

Nessuna comunicazione verbale, nessuna clonazione potranno ricomporre quel legame speciale fondato sulla più pura espressività. Una dimensione ‘amicale’, nella stessa accezione del Jacques Derridadi “Politiche dell’amicizia”, che dobbiamo condividere con i gatti, per costruire una comunità finalmente autentica.   

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