Si è parlato molto del metodo adottato da Beppe Grillo per le candidature in Parlamento: cioè blindarle a monte, designando come candidabili alle primarie solo gli attivisti già candidati in precedenza. Persone di provata fede insomma, attivisti “da prima di Parma”, sul campo ai tempi del 2%.
Definita da più parti un diktat poco democratico e non in sintonia con i principi di democrazia dal basso, la decisione di Grillo si sta invece rivelando piuttosto saggia alla luce dei fatti.
Basti guardare quel che sta succedendo a Roma. Il movimento romano si è dato le proprie regole per la scelta dei candidati locali, e il risultato è stato un regolamento talmente ferreo sia a monte che a valle (regole stringentissime per candidati e votanti) da determinare un’assoluta carenza di democrazia e di scelta. Nei municipi, a cui sono state demandate le nomine per tutte le competizioni elettorali locali, si è finiti col votarsi a vicenda in 7 o 8 persone. Non solo: il sistema rigido ai limiti della paranoia non è neppure riuscito a tenere alla larga i bandwagoner dell’ultim’ora. Alcuni di essi infatti, grazie alla loro furbizia politica, hanno bypassato le maglie del regolamento per ritrovarsi finalmente candidati alle primarie interne: portaborse, ex leghisti, aspiranti politicanti e parenti di, gente che a Roma non manca di certo. Complici anche l’ingenuità e la buona fede di tanti aderenti, nonché la mancanza di altre opzioni sui nomi. Attivisti “storici” e assai meritevoli invece, privi di qualcuno dei mille cavilli necessari alla nomina, si sono ritrovati fuori.
I romani stanno imparando, insomma, che un regolamento sia democratico che sicuro è possibile solo “liberando” la scelta dei candidati e blindando i votanti oppure l’opzione contraria, quella di Grillo. Restringere allo spasimo la rosa di entrambi è un sicuro fallimento, che non tutela né la democrazia né la sicurezza interna. Un peccato di ingenuità, sicuramente, e per fortuna di quelli a cui si può porre rimedio.