Presentato il nuovo vertice del Partito. Di riforme politiche non se ne parla. La strada intrapresa va verso una sempre maggiore “intra party democracy" ovvero la possibilità di eleggere il prossimo Comitato Centrale, partendo da una rosa più ampia di nomi rispetto a quella attuale
Ecco i nomi degli Imperatori che governeranno la Cina nei prossimi cinque anni: Xi Jinping, diventato anche segretario generale del partito che a marzo diventerà Presidente, Li Keqiang, il prossimo premier, Zhang Dejiang, Yu Zhengsheng, Liu Yunshan, Zhang Gaoli e Wang Qishan.
Xi Jinping il nuovo segretario del Partito è anche capo della commissione centrale militare. Nel suo discorso, alla presentazione alla stampa, cominciato con un’insolita ora di ritardo, Xi si è presentato in modo amichevole e spigliato, sintomo di grande carisma e come se fosse un candidato appena eletto. Un mini discorso in cui ha parlato di riforme, di corruzione e di una necessaria comunicazione tra Cina e Occidente. Intanto i nomi: sono sette e non nove, sintomo di un mancato compromesso tra le forze interne del partito, con la conseguente necessità di serrare i ranghi per evitare sorprese. Inoltre: molti di loro sono over 65 e tra cinque anni, dunque, andranno in pensione. Significa che la Cina, arrivata un po’ logora al congresso con la crescita al 7,5 percento e tensioni sociali ormai alla luce del sole, ha scelto una via di transito, rispetto al consueto cambio decennale. Nel 2017 arriveranno nel centro del potere i leader della sesta generazione e il quadro sarà completo. Per ora nelle mani di Xi Jinping rimane un organo potente ma amorfo, stretto tra il grande vecchio Jiang Zemin, il tentativo di colonizzazione a posteriori di Hu Jintao (che nel suo discorso finale aveva parlato di riforme e lotta alla corruzione) e preda di compromessi che forse nascondono per la prima volta un’incertezza sul da farsi.
Di riforme politiche non se ne parla: la strada intrapresa va verso una sempre maggiore “intra party democracy”, dang nei minzhu in cinese, ovvero la possibilità di eleggere il prossimo Comitato Centrale, partendo da una rosa leggermente più ampia di nomi rispetto a quella attuale. Aperture politiche, neanche l’ombra. Anzi: Hu Jintao – presidente uscente – ha tenuto a sottolineare come l’unità e la centralità del Pcc siano fuori discussione. E su questo la nuova leadership non sembra intenzionata a cambiare. Si parlerà invece di riforme economiche: sono necessarie, ma c’è da chiedersi quanto il Partito in questo momento, con la sua ansia da controllo, non costituisca più un tappo all’evoluzione del paese più che uno strumento in grado di sprigionare quelle energie di cui la Cina sembra aver bisogno.
Sulla carta tra i membri dell’Ufficio Politico l’unico progressista vero è Wang Qishan, considerato un liberale, già autore delle contrattazioni commerciali con gli Stati Uniti. E’ l’unico dato in quella bolla “riformista” cinese che significa tutto e niente. Perché a fare da contraltare c’è Zhang Dejiang, boss di Chongqing in sostituzione dell‘epurato Bo Xilai, uno che ha studiato economia all’università di Pyongyang in Corea del Nord. C’è poi Li Yunshan, la mano nera di Hu Jintao nel decennio precedente, che ha oscurato tutto quello che ha potuto su Internet, lasciando poi via libera alle forze di sicurezza, capaci di arrestare solo nel 2011 oltre 300 tra attivisti e blogger. Li Keqiang, il futuro premier, figlioccio di Hu Jintao e presidente mancato per un pelo, è un altro considerato riformista, ma con una personalità che appare ben più debole della caratura di “falco” di altri neo imperatori.
Qualche chances in chiave “cambiamento” potrebbe arrivare da Yu Zhengsheng, dato come molto cauto: del resto suo fratello a metà anni 80 da funzionario dell’intelligence cinese era scappato negli Stati Uniti. Yu si è salvato solo grazie all’allora capo padrone Deng Xiaoping, che lo tenne in vita politicamente. Un Ufficio Politico diviso equamente tra “principini” – figli di vecchi rivoluzionari – e carrieristi all’interno del Partito, composto da economisti, giornalisti, e persone con master all’estero rispetto ai tecnocrati dello scorso mandato (tutti ingegneri) che segna però un momento nuovo nella storia recente cinese. Una sorta di immobilismo, di tregua, dopo un anno e passa di battaglie politiche violentissime, alcune delle quali forse ancora da giocarsi completamente. Nel Politburo, come previsto, non è entrata nessuna donna: Liu Yandong non ce l’ha fatta.
di Simone Pieranni