Un secolo dopo i bisnonni, gli italiani tornano ad emigrare in massa verso Londra, ancora considerata città di opportunità e meritocrazia. Ma non sempre riescono a trovare quel che cercano. Oltre ai racconti a lieto fine di accademici e lavoratori altamente qualificati ci sono migliaia di giovani emigranti che oggi non arrivano con la valigia di carta, hanno un titolo di studio o delle esperienze importanti, non lavorano per mantenere i familiari lontani. Eppure, per molti, già grandi, lasciarsi dietro l’Italia, non vuol dire iniziare una nuova avventura ma solo passare da una precarietà all’altra, continuando lontani da casa la lotteria di lavori temporanei e non qualificati, retribuiti poche sterline l’ore che finiscono in gran parte per mantenere alloggi in abitazioni fatiscenti, pagate a peso d’oro.
In tanti inoltre, poco qualificati o con in tasca titoli di studio che offrono, nell’immediato, minori opportunità lavorative, di fatto la maggioranza di chi emigra, una volta giunti nella capitale inglese, hanno dovuto ricominciare da capo, da chi lavora nell’ambito alberghiero o della ristorazione (Horeca, acronimo di Hotellerie-Restaurant-Café) o dai lavori manuali, dalle pulizie alle tante altre attività non qualificate. Numeri precisi di quest’esodo silenzioso, nessuno sa darne: nel Regno Unito non esiste un sistema di registrazione del domicilio e solo una minoranza si iscrive all’anagrafe degli italiani all’estero (Aire) presso il consolato. Nonostante il comune di Londra avesse censito nel 2006 circa 50 mila connazionali, in seguito all’acuirsi della crisi economica nel 2008 è ragionevole che le stime nella realtà siano sensibilmente aumentate. Aldilà di accademici e “colletti bianchi”, resta sconosciuto tanto alle rappresentanze sindacali italiane nel Regno Unito quanto all’associazionismo il numero effettivo di connazionali occupati nel catering o in lavori manuali, dove potrebbero aver trovato posto molti laureati, fatti fuori dalle dure leggi di una delle piazze più competitive d’Europa.
“Dallo scoppio della crisi, l’arrivo di giovani italiani con in tasca ‘lauree deboli’, generalmente umanistiche, è cresciuto in maniera esponenziale” dice Carolina Stupino, giornalista dell’Ansa, a Londra da 13 anni. “La facilità odierna degli spostamenti e la competizione sul mercato del lavoro londinese, hanno reso i tempi per l’accesso alle posizioni di maggior interesse più lunghi ed il percorso più complesso. Qui le raccomandazioni non funzionano ma in un mercato tanto affollato, il fattore tempo diventa determinante per aumentare le proprie chances“. Ecco il rovescio della medaglia di una piazza improntata alla meritocrazia ed al rispetto delle regole: la ricerca d’impiego si trasforma spesso in una feroce corsa ad ostacoli dove il sogno di un futuro migliore passa per costosi investimenti in corsi e master e per l’incertezza di una lunga ed estenuante gavetta tra ristoranti caffetterie ed altri impieghi mal pagati.
“Oggi in tanti ‘scappano’ dall’Italia e si trasferiscono a Londra convinti che ottenere il riconoscimento per i propri sforzi e l’indipendenza personale sia uno scherzo da queste parti”. Luca, pugliese, a Londra dal 2007, lavora come analista presso una società inglese di comunicazioni. “Sono arrivato con la sola laurea in scienze politiche – dice -ed è grazie al master al London School of Economics che ho potuto valorizzare i miei anni di studi in Italia. La crisi continua a farsi sentirsi anche da queste parti ed il mercato non riesce più ad assorbire tutta la forza lavoro qualificata, finendo poi per privilegiare chi ha conseguito titoli in Inghilterra”. Anche per chi ‘ce l’ha fatta’ però, la strada è tutt’altro che in discesa: “La qualità della vita a Londra – prosegue Luca – non è buona e pur con uno stipendio soddisfacente, come reputo il mio, aspirazioni elementari come acquistare casa o pianificare dei viaggi restano comunque proibitive”.
Se investendo tempo e denaro, alcuni sono riusciti, senza santi in paradiso, a raggiungere obiettivi impensabili in Italia altri sono invece rimasti intrappolati nella morsa del lavoro precario. Mafalda, campana, vive a Londra da quasi dieci anni. “Con solo una laurea in lingue conseguita in Italia, al mio arrivo, le opportunità erano scarse – racconta-. Mi sono dovuta arrangiare per un pò con lavori di fortuna e dopo qualche anno, con i soldi messi da parte, sono riuscita a pagarmi un corso da insegnante di inglese per stranieri che mi ha consentito di trovare il primo impiego”. Sembrava l’inizio di una tanta sospirata carriera e di un pò di stabilità ma contratti da poche ore, mal retribuite e la scure dei tagli alla spesa sociale imposti dalle misure d’austerità, hanno spento l’entusiasmo. “Le scuole dove ho lavorato sono finanziate dal comune e con la riduzione dei fondi, hanno dovuto tagliare molte classi, cosi io, dopo quattro anni, sono rimasta a piedi. Mi trovo in una situazione di precarietà pur avendo investito molto in questo paese e al momento di migliori opportunità, con la crisi e la competizione degli insegnanti madrelingua, se ne intravedono ben poche.”
Riccardo, pugliese, una laurea in tasca in agraria, lascerà a breve Londra, per andare ad insegnare le sue materie in Asia: “Le paghe non sono straordinarie laggiù ma almeno potrò svolgere un lavoro adeguato alla mia preparazione”. Dopo 8 anni a Londra e centinaia di curriculum inviati in Inghilterra ad aziende ed istituti di ricerca del suo settore, ha ottenuto solo una manciata di colloqui. Per mantenersi, ha mostrato di essere ben poco choosy, lavorando fin dai primi tempi del suo arrivo, presso la reception di un hotel: “Il costo della vita a Londra consente solo a chi può permetterselo di non lavorare e dedicarsi alla ricerca a tempo pieno della propria strada – puntualizza -. Gli altri sono costretti, per lunghi periodi, a ripiegare su lavori mal pagati nell’horeca o in qualche call-centre, tutte attività che finiscono per occupare l’intera settimana. D’altronde con un minimo sindacale di sei sterline l’ora, anche lavorando a tempo pieno, gran parte dello stipendio va via tra affitto e spese per i trasporti”. Difficoltà che lo portano, in fondo, a una conclusione amara. “Con pochi soldi in tasca, la qualità della vita a Londra è pessima. Aldilà dell’esperienza umana – conclude – non saprei dire, a distanza di anni, se valga davvero per chiunque la pena di traferirsi qui”.