L'autrice di "Persepolis", dapprima di graphic novel e poi di un film evento sulla recente storia iraniana vista attraverso i suoi stessi occhi, dice: "Il fatto di essere di quel Paese non significa che per tutta la vita parlerò dell'Iran nella mia produzione. Certo, sono un'esiliata e la nostalgia mi uccide, ma tutto sommato vivo la mia vita"
L’importante è divertirsi.
Questo il fulcro della conferenza stampa di Marjane Satrapi, acclamata autrice di “Persepolis”, dapprima graphic novel e poi film evento sulla recente storia iraniana vista attraverso gli occhi di Marjane stessa, dall’infanzia all’età adulta. Giunta al Festival del Cinema di Roma per presentare, nella consueta veste di regista e nel nuovo ruolo di attrice, il suo ultimo film “La Bande Des Jotas”, commedia brillante ambientata in Spagna, la Satrapi sottolinea come questo progetto le sia servito, dopo produzioni importanti e impegnative, a riscoprire il piacere di fare cinema. “Mentre giravamo, non sapevamo neppure se avremmo potuto tirar fuori un vero e proprio film. È stato bello sperimentare”.
Ai giornalisti che le chiedono il perché di questa ideale interruzione con la propria funzione di regista “contro”, finora assolta sia nel già citato “Persepolis” che nel più lirico “Pollo alle prugne”, la Satrapi risponde: “Il fatto di essere iraniana non significa che per tutta la vita parlerò dell’Iran nei miei film. C’è un po’ questo preconcetto: sei iraniano, devi essere interessato all’armamento nucleare, alle donne velate e ignorare la commedia. Certo, la mia origine è importante, ma come qualunque essere umano ho il diritto di essere interessata ad altre cose. In passato ho voluto parlare del mio Paese, ma credo di essermi completamente espressa e di non avere altro da aggiungere per il momento. Volevo realizzare una bella storia d’amore (“Pollo alle prugne”, ndr) e poi fare un film buffo. In Francia, la questione delle origini è piuttosto importante: se sei un ottimo calciatore sei francese, se la stessa persona ruba al supermercato diventa un arabo. Lo stesso vale per me: se realizzo un film di successo, vengo indicata come “artista francese”, ma se faccio qualcosa che non piace divento subito “francese di origine iraniana”. In fondo, dovremmo ricordarci di avere tutti la stessa origine. Io sono iraniana, francese, svedese e tedesca insieme. Fico, no?”
La regista non rinnega comunque la propria patria, anzi: confessa di avere una grande nostalgia per Teheran, da cui manca da ben tredici anni. “Per me è facile andare in televisione e recitare la parte della Pasionaria iraniana, ma non sono sufficientemente informata. Non posso mettermi a predicare da lontano. Mi rifiuto di recitare la parte dell’esperta politica. Non ha senso essere orgogliosi di essere italiani o iraniani, come non ha senso essere orgogliosi di essere donna o uomo: sono scelte indipendenti da noi. Certo, sono un’esiliata e la nostalgia mi uccide, ma tutto sommato vivo la mia vita, faccio ciò che voglio e non ha senso lamentarmi: la maggior parte dei paesi del mondo ha una dittatura e la maggior parte delle persone nel mondo soffre, quindi troverei vergognoso lagnarmi.”
Parlando del suo prossimo progetto americano, in cui verranno coinvolti probabilmente nomi di grande richiamo, rivela: “Dopo la nomination all’Oscar, mi sono stati proposti molti progetti. Mi vedevano dapprima come un’esperta del mondo infantile, perché la protagonista di “Persepolis” all’inizio è bambina, poi sono diventata un’esperta del mondo musulmano, poi un’esperta del mondo femminile e mi hanno presa in considerazione per film alla “Sex and the city” in cui le donne si limitano a comprare borse senza che si capisca come e quando guadagnano tutti questi soldi per lo shopping. Alla fine, è arrivato “Le voci”. Una sceneggiatura molto interessante su uno schizofrenico che, quando non prende i farmaci, vede il mondo mutare di fronte ai suoi occhi. Il gatto lo spinge ad uccidere, il cane tenta di convincerlo a non uccidere. C’erano quattro o cinque registi in lizza, e mi chiedo come mai gli americani abbiano finito per scegliere me. Comunque, se tutto va bene, inizieremo a girare in aprile in Germania. Dopodiché, mi potrò dedicare a un piccolo progetto: un film sull’indigestione di baklava (dessert ricchissimo di zucchero, frutta secca e miele molto popolare in Turchia e in quasi tutte le cucine arabe e balcaniche, ndr) che porta la protagonista alla morte. Giunta nell’aldilà, tratterà con Dio per ottenere la propria rinascita.”
E l’animazione, che l’ha consacrata attraverso l’applauditissimo Persepolis? Di tornare a disegnare, la Satrapi non ne ha proprio voglia. “È stato un lavoro così doloroso e sfiancante che, ora come ora, non ho alcuna intenzione di ripetere l’esperienza. Magari tra dieci anni mi sarò dimenticata della fatica che ho fatto e vorrò riprovarci, chissà. Avrei potuto fare “Persepolis 2″ e diventare molto molto ricca, ma il mio piatto preferito sono le linguine alle vongole, che si preparano tranquillamente con cinque euro. Non ho bisogno di miliardi. Non lavoro per soldi, ho 52 anni e sono una fumatrice accanita, quindi prevedo di vivere ancora una trentina d’anni. Ogni progetto necessita di circa tre anni di preparazione: mi restano dieci lavori importanti. Voglio avere una buona carriera e arrivare alla fine, quando avrò tutti tubicini inseriti nei buchi del mio corpo, a poter dire ‘Marjane, hai fatto tutto ciò che volevi fare!’ senza avere rimpianti. Magari, se dovessi fare Avatar 2 per 500 milioni di dollari, finirei per avere dei rimpianti!”