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Giù le mani dai ventenni

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Ho figli e studenti di vent’anni, e non ne posso più di sentire scempiaggini sul loro conto: e attenzione, bamboccioni e generazione perduta sono ancora il meno, almeno non sono etichette ipocrite. Quel che proprio non reggo, invece, sono le lamentele di tanti miei colleghi, capaci solo di dipingerli come un gregge di dementi analfabeti solo perché comunicano in modo diverso dal loro:  senza neppure riflettere, oltretutto, che se davvero fossero dei pecoroni la colpa sarebbe solo nostra, voglio dire di noi padri-madri e professori-professoresse, e non loro.

Prendo, come al solito, il mio caso: per esibire il mio ego ipertrofico, certo, ma anche per insinuare che so di quel che parlo, o parlo di quel che so. Bene, i miei figli e i miei studenti sono proprio il contrario di una manica di deficienti. Certo, mio figlio piccolo sa chi è Jack Kerouac, pensate un po’, ma poi ignora dove sia Bergamo, forse perché ha avuto la sfiga di studiare dalle suore; il grande, invece, se la tira da teppista e gli fanno schifo tutti i politici, Grillo compreso, però poi va a spalare il fango dopo le alluvioni e comunque sogna di fare il criminologo, non il criminale.

Ma lasciamo stare i miei figli, sulla cui educazione declino ogni responsabilità, e veniamo ai miei studenti. Trieste sarà anche un posto eccezionale, un terzo degli iscritti ha cognomi italiani, l’altro terzo italianizzati, il terzo restante sloveni, greci, albanesi o senegalesi, ma insomma a noi la globalizzazione ci fa un baffo. Il primo anno li torturo con la logica e i concetti giuridici, eppure gli esami vanno bene; il quarto anno, poi, va ancora meglio, parliamo di diritto europeo e gli esami diventano una prosecuzione del corso, a volte parlo più io di loro, altre volte ragazze bellissime o ragazzi scontrosi rivelano più cultura e personalità di tanti miei colleghi.

Certo, poi anche a Trieste facciamo le nozze con i fichi secchi, l’ultima distribuzione di fondi ministeriali è avvenuta non secondo il merito ma in base all’eccellenza. Sapete cos’è? È quel bizzarro criterio che piace tanto ai miei colleghi delle università private, compresi quelli che ci governano, e che funziona più o meno così: pochi gruppi di eccellenza prendono tanti soldi da non riuscire a spenderli neanche facendo il bagno nello champagne, mentre tutti gli altri faticano a comprare la carta igienica. Ai ragazzi, d’altronde, queste cose non c’è bisogno di dirgliele: loro è dall’asilo che la carta igienica se la portano da casa.

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