Briatore, visto da vicino nello studio di Servizio Pubblico, è veramente adorabile. Ha un processo per un’evasione fiscale da 5 milioni e tuona contro il “fisco Dracula che succhia soldi ma non restituisce nulla” (li succhia agli altri, ovviamente). Porta occhiali da sole azzurrini, un doppiopetto modello Chicago anni 30, un paio di babbucce bicolori davvero notevoli e, mentre è lì, in studio, traffica sull’iPad per twittare con i prestigiosi Paola Perego e Red Ronnie: “Manichino della Coin pontifica” e “robe da matti”. La Costamagna riepiloga il suo curriculum giudiziario e lui la chiama “maestrina” e la accusa di “dare lezioni”, ignaro dell’esistenza di un oggetto per lui misterioso: il giornalismo.
A chiunque obietti qualcosa, risponde che lui ha vinto 7 mondiali di Formula1 (poi naturalmente ne uscì per un caso di frode sportiva) e gli altri no: come quel suo amico che, al professor Spaventa candidato nel suo collegio a Milano, obiettò: “Prima provi a vincere un paio di coppe dei campioni”. Un’analista seria come la Penelope tenta di spiegargli, dati alla mano, che le tasse sono alte perché metà dei contribuenti non le pagano, ma lui la liquida con un elegante “non rompere i maroni, sei qui per vendere il tuo libro, i tuoi numeri ce li giochiamo al lotto”. In effetti lui coi numeri ha qualche difficoltà, fin da quando agguantò con una certa fatica (lo chiamavano “tribùla”) il diploma di ragioniere in quel di Verzuolo (Cuneo). E la Costituzione è stata scritta “nel 1945, in quegli anni lì no?”, dunque è superata. Non conosce nemmeno la sua età, visto che spaccia per errori di gioventù (“avevo vent’anni”) i due mandati di cattura per associazione a delinquere finalizzata alla truffa cui si sottrasse agilmente dandosi alla latitanza ai Caraibi e poi in Brasile.
Era il 1984 e lui, essendo nato nel 1950, aveva 34 anni. Fu poi condannato a 4 anni e mezzo e salvato dall’amnistia. Lui liquida il tutto con la soave espressione “ho avuto un problema”. Gli chiedono: quale? Risponde: “Gioco d’azzardo”. Naturalmente nessuno si becca due arresti e 4 anni e mezzo per qualche partitella a carte. Se invece organizza, con una banda di bari, partite truccate di poker e chemin per spennare decine di polli e intascare centinaia di milioni, grazie anche a rapporti con il boss Tony Genovese, non è gioco: è truffa. E il truffatore, in un altro paese, resta marchiato a vita da una diffusa quanto comprensibile diffidenza: non perché chi sbaglia non possa rialzarsi, ma perché la gente ha buona memoria, specie nel mondo degli affari. In Italia invece ha tutte le porte spalancate, grazie a una vasta platea di polli sempre pronti a farsi spennare. Grandioso, nella sua eleganza, il gesto di fare la carità alla figlia del malato di Sla: “I 500 euro al mese per un anno glieli do io”. Manca poco che il filantropo cuneese li tiri fuori di tasca a favore di telecamera, arrotolati. Forse confonde l’elemosina con Lele Mora.
Intanto chiama Landini “Maurizio”, come un compare di bisbocce al Twiga o al Billionaire. L’impressione, vedendolo all’opera, è che sia addirittura in buona fede: cioè che creda davvero a quel che dice. Anche quando sostiene che la politica non gli interessa. Ma chi dice in pubblico che B. è il numero uno, “un brand”, se non ha combinato nulla è “colpa della burocrazia” e dei “1200 parlamentari” (che sono 945), mentre in privato confida alla Santanchè “è malato, ha ragione Veronica, uno normale non fa ‘ste robe qui (le cene eleganti, ndr), al suo posto non dormirei la notte, ma non per le troie: per la situazione che c’è in Italia”, è già un politico fatto e finito. Lui non imita Berlusconi: lui è Berlusconi, o almeno crede di esserlo. Noi, però, fra il Cavaliere di Hardcore e gli aspiranti eredi, compreso il Ragioniere di Verzuolo, continuiamo a preferire l’originale. I polli che ha spennato lui, gli altri se li sognano.
Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2012