Intanto, in macchina, ascolto sempre Tempest, il Bob Dylan con la voce rigata dagli anni che canta come si fa un lavoro, a tempo pieno e senza alcuna intenzione di alleggerire l’impegno. Bob Dylan, come molti ricordano, è nato ventenne accanto a Joan Baez diciannovenne, tutti e due a fianco di Martin Luther King, nella marcia di Selma per i diritti civili, la chitarra, la voce, il coraggio e la storia americana che è cambiata con loro. In Tempest, questa prova evidentemente e sfacciata della voce che cambia con l’età, Bob Dylan ti dice che non canti per bellezza, canti come si tiene fede a un impegno, al dovere di dire le cose che sai e che puoi dire e come le sai dire. I testi di Dylan, che cambiano sempre e non cambiano mai, come un lungo concerto che dura una vita, invecchiano bene e la voce segnata dal tempo l’ascolti con lo stesso legame saldo e istantaneo che si è creato subito quando era apparso all’improvviso e tutti giudicavano non professionale la sua voce e restavano ad ascoltarla finché è diventata la lingua comune di tante vite giovani.
Certo è soltanto un caso che in questo stesso periodo Leonard Cohen ci faccia sentire con il suo ultimo cd, come è diventata grave, densa, profonda la sua voce di anziano poeta. La sua voce adesso è come sotto una coltre, ma la lentezza quasi sussurrata non suggerisce stanchezza, suggerisce il talento dell’artista che sa come e quando usare un altro strumento, con l’intesa che, se tutto cambia, cambierà ancora. Qui c’è da considerare il rapporto del canto con le persone, che è diretto e individuale, nel senso che qualcuno canta per te, non per la folla. E ti racconta senza pudore il più privato dei fatti. Ecco la loro arte. Non c’è ombra di rimpianto, la presenza è adesso, qui è il momento di dire molto della tua vita. E allora, per forza, si stabilisce un dialogo con la vita degli altri. E tutti allo stesso modo, vedono il tempo, esattamente mentre passa, bene intonati, e senza nostalgia.
Il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2012