La giustizia fai-da-te e la protezione privata sono due specialità di Silvio Berlusconi. Quando negli anni Settanta riceve, come tanti imprenditori del nord, minacce di rapimento e pressioni estortive dagli ambienti di Cosa nostra, invece di correre subito dai carabinieri, cerca di sistemare le cose in famiglia. Lo confessa lui stesso in un’intervista del 1994 al Corriere della sera: “Rapporti con la mafia ne ho avuti una volta sola, quando tentarono di rapire mio figlio Pier Silvio, che allora aveva cinque anni: portai la mia famiglia in Spagna e lì vissero molti mesi”. Pier Silvio compie cinque anni il 28 aprile 1974. Proprio nel 1974 arriva ad Arcore, da Palermo, Marcello Dell’Utri, ingaggiato come stretto collaboratore. Al seguito, ecco Vittorio Mangano, affiliato a Cosa nostra, uomo d’onore della famiglia palermitana di Porta Nuova: si installa a Villa San Martino, assunto come fattore.

Nei primi anni Settanta, Berlusconi sembra assediato dai siciliani sbarcati a Milano. Lo ammette anche Dell’Utri, quando conferma l’arrivo di una lettera anonima nei primi giorni del 1975: “Rammento solo che si trattava di una richiesta di denaro. Se Silvio non avesse pagato, suo figlio sarebbe stato rapito e ucciso… Arrivarono anche delle telefonate anonime. Berlusconi allora si allarmò. Eravamo ormai nel periodo estivo e così lui decise di andare all’estero con tutta la famiglia. Gli organizzai un viaggio in Spagna”.

Cose strane succedono ad Arcore in quegli anni. Non proprio cene eleganti: “Effettivamente, nel 1974, quando Mangano stava già ad Arcore, furono rubati quadri e altri oggetti”, rammenta Dell’Utri. La notte di Sant’Ambrogio poi, il 7 dicembre del 1974, un gruppo di siciliani tenta (senza successo) di sequestrare un ospite, Luigi D’Angerio, appena uscito da una cena a villa San Martino.

Il culmine del pressing è una bomba che esplode il 26 giugno 1975 in una elegante palazzina di via Rovani, a Milano. Ma è impossibile collegare l’intimidazione a Berlusconi perché quella villa, che è il suo primo quartier generale a Milano, ufficialmente risulta essere di Walter Donati, uno dei suoi prestanome. L’indagine di polizia viene di fatto depistata, poiché Berlusconi lascia credere che sia, come scritto sul rapporto stilato dalla Direzione centrale della polizia criminale, della “Società Generale Attrezzature gestita da Walter Donati” (è la società che vendeva le case di Milano 2). Nel 1986, nuova bomba in via Rovani, che ormai è notoriamente casa Berlusconi. Ma per Silvio e Dell’Utri, intercettati, è “una bomba rispettosa”: “Sì, questa cosa qui, da come l’ho vista fatta”, dice Berlusconi, “con un chilo di polvere nera, una cosa rozzissima, ma fatta con molto rispetto, quasi con affetto… Io penso che sia lui”. Lui è Vittorio Mangano. “Perché, scusami, tu spiegami perché uno debba mettere una bomba… fatta proprio rudimentale, con un chilo di polvere nera… Per dire… faccio un botto! Ma poi con molto rispetto… Quindi, una cosa, anche rispettosa e affettuosa”. Segue sonora risata. “Un chilo di polvere nera… proprio il minimo… Come una raccomandata: caro dottore…”. “Perché lui non sa scrivere”, replica sganasciandosi Dell’Utri. “Stamattina gliel’ho detto anche ai carabinieri: …io trenta milioni glieli davo! Per trenta milioni!”. Poi si scoprirà che non era Mangano il buontempone della “bomba affettuosa”. Piuttosto Cosa nostra catanese, secondo i magistrati palermitani che hanno processato Dell’Utri per mafia. Niente risate, ma preoccupazione vera, due anni dopo,quando Berlusconi è intercettato al telefono con il socio Renato Della Valle (indagato per bancarotta). È il 17 febbraio 1988: “Sono messo male fisicamente e poi ho tanti casini in giro, a destra e a sinistra. Ne ho uno abbastanza grosso, per cui devo mandare via i miei figli, che stanno partendo adesso per l’estero, perché mi hanno fatto delle estorsioni in maniera brutta”, confida Silvio all’amico. “È una cosa che mi è capitata altre volte, dieci anni fa, e ora sono ritornati fuori”. “Senti, Silvio”, gli dice Della Valle, “va beh, ma hai Saint Moritz, no? Sennò ti dicevo se vuoi mandarli, i figli, anche qui a casa mia”. E Berlusconi: “Grazie, li mando molto più lontani. Sai, siccome mi hanno detto che, se entro una certa data non faccio una roba, mi consegnano la testa di mio figlio a me e espongono il corpo in Piazza Duomo…”.

Sotto ricatto per tutta una vita. Nei primi anni Novanta (quelli segnati dalla trattativa tra Cosa nostra e Stato) sono le filiali Standa in Sicilia a subire attentati (Berlusconi aveva comprato la Standa nel 1988). Interrogato a proposito nel 1996, nel processo catanese su quegli attentati, Berlusconi dice di non sapere nulla degli incendi. Afferma che la Standa non ha mai pagato il pizzo, anzi non ha mai neppure ricevuto “richieste di natura estorsiva” (mentre il gruppo Rinascente, per un episodio simile accaduto a Catania nello stesso periodo, aveva ammesso di avere pagato). Minimizza perfino i danni subiti. E condisce le sue risposte – lui, solitamente così preciso e puntuale – con una lunga sequela di “non so”, “non sono al corrente”, “non so essere preciso”, “non ho memoria”.

Negli anni successivi, arriveranno le pressanti richieste di essere difeso da parte dell’amico avvocato Cesare Previti, sintetizzate (secondo un testimone) dal motto leggermente inquietante “Simul stabunt, simul cadent”, insieme staranno in piedi, insieme cadranno. Il resto è in discesa: generoso, Silvio aiuta gli amici. Passa 500 mila euro a Walter Lavitola (secondo le ipotesi d’accusa) per Giampi Tarantini, il fornitore di escort sulla piazza romana e sarda. A Dell’Utri compra la villa sul lago di Como a un prezzo strepitoso, 21 milioni. Già che c’è, compra casa anche a un paio di testimoni del processo Ruby, il cantautore Mariano Apicella e il pianista Danilo Mariani. Ad altre testimoni, una quarantina di ragazze, passa una paghetta di 2.500 euro al mese. A eseguire i versamenti è il ragionier Spinelli, ora ultima vittima di una storia d’intimidazioni e ricatti che sembra senza fine.

Il Fatto Quotidiano, 20 novembre 2012

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