Entrando nell’appartamento, è naturale chinare la testa: lo sguardo è attirato da un misterioso intarsio di marmi bianchi e neri sul pavimento, che forma tre cerchi concentrici con in mezzo tre lettere candide: F, M, V. Ovvero F come Ferraro, M come “Mussuni”, V come Vincenzo. È l’ingresso dell’abitazione di Pino Ferraro, detto “Mussuni”, uomo di ’ndrangheta.
Vincenzo è il suo boss: Vincenzo Pesce detto “U Babbu”, capomafia di Rosarno. L’intarsio attira l’attenzione e spinge istintivamente a chinare il capo: così chiunque entri in casa s’inchina alla ’ndrangheta. L’appartamento non è in Calabria, ma è al nord, a Milano, in viale Jenner 31, dove “Mussuni” viveva con la famiglia. È stato arrestato nel 2006 per traffico di droga ed estorsione. L’edificio è anonimo, in una zona che non è né centro né periferia. Ma salendo al primo piano si entra in un altro mondo. Pavimenti in marmo, infissi decorati in legno laccato color crema, zona soggiorno, tre camere da letto, area guardaroba, grande veranda coperta (presumibilmente abusiva) che porta, a sorpresa, in un inaspettato giardino pensile invisibile dall’esterno, con fiori e piante. L’arredamento della famiglia Ferraro – piuttosto sontuoso, garantisce chi l’ha visto – non c’è più. Anche l’illuminazione è stata cambiata: i sofisticati faretti disseminati nell’appartamento, troppo energivori, sono stati sostituiti con freddissimi neon (“Solo questo avevamo nei magazzini del Comune”). Nell’area guardaroba non c’erano solo vestiti: un impianto video riceveva il segnale di una telecamera nascosta che permetteva di osservare chiunque si avvicinasse alla porta d’ingresso o passasse sul pianerottolo.
Scene di mafia in alta Italia. Quanti a Milano sanno che in città esistono cose simili? Eppure sono ben 90 i beni (prevalentemente appartamenti) confiscati alle organizzazioni criminali e riassegnati per fini sociali. L’abitazione di Pino Ferraro detto “Mussuni”, uomo di ’ndrangheta, è diventata una casa alloggio per anziani senza un posto dove andare. “Ospitiamo persone in difficoltà , a cui forniamo un tetto provvisorio, in attesa di poterli collocare in una casa popolare”, spiega Pino Calvano, educatore del settore anziani del Comune di Milano. “Dal gennaio 2010 a oggi sono una cinquantina gli anziani che hanno trovato ricovero qui, nei cinque posti letto che abbiamo ricavato”.
Qualche giorno fa, i milanesi hanno potuto vedere con i loro occhi come vive un boss e visitare casa Ferraro. Non per un voyeuristico mafia–tour, ma per una serie di iniziative disseminate in città nel primo Festival dei beni confiscati, organizzato dal Comune. Incontri, dibattiti, film, spettacoli teatrali e musicali (curati da Barbara Sorrentini, direttore artistico del festival). “Una mobilitazione corale intorno al tema della legalità e delle mafie”, ha spiegato l’assessore alle politiche sociali Pierfrancesco Majorino. “Credere che le mafie non esistano a Milano è una tragica idiozia. Si deve chiudere definitivamente il tempo in cui la città ha fatto finta di niente pensando di essere immune”. A casa Ferraro, ieri ci s’inchinava alla ’ndrangheta, oggi si può alzare la testa.
Il Fatto Quotidiano, 22 Novembre 2012