Lo scoop di Karl Marx
Questa storia l’ha già raccontata centocinquant’anni fa un giornalista di moderato successo, Karl Marx. Nel 1848 in Gran Bretagna stava per entrare in vigore la legge che limitava a dieci ore la giornata di lavoro. L’Europa era in mezzo a una lunga crisi economica, e gli operai erano in difficoltà, tentati dall’idea di lavorare oltre le dieci ore per qualche penny in più. Gli industriali cercavano di convincerli a protestare insieme contro una legge che irrigidiva il mercato. “Riguardo alla mezza dozzina di petizioni nelle quali gli operai furono costretti a lamentarsi della ‘loro oppressione sotto quell’Atto’, gli stessi petitori dichiararono che le loro sottoscrizioni erano state estorte”, racconta Marx nella sua opera più nota, “Il Capitale”. Le analogie con il presente non mancano. La crisi, lo stato di bisogno dei lavoratori e la tentazione di subire il ricatto in nome del realismo. Gli ispettori del lavoro, che nella Londra del XIX secolo erano più attenti che nell’Italia del XXI, si interrogavano: “Si può ritenere illogico che abbia luogo un qualsiasi sovraccarico di lavoro in un momento nel quale il commercio va così male; ma proprio questa cattiva situazione sprona gente senza scrupoli a trasgressioni”. Per Marx quelle norme consolidavano un sistema capitalistico nel quale la classe operaia era sfruttata ma anche inclusa nella società (con identità e rapporti definiti con le altre classi) e garantita da leggi che governavano i rapporti di forza.
Due libri usciti da poco ci aiutano a comprendere i rischi di ritorno al feudalesimo evocati l’accordo sulla produttività di palazzo Chigi. Il primo, “Manifesto capitalista” (Rizzoli), è di Luigi Zingales, economista padovano, docente alla Chicago University. Zingales è un liberista estremo che scrive per mettere in guardia i lettori. Il sogno americano (capitalismo, concorrenza, meritocrazia, opportunità per tutti) può svanire. L’America, scrive amaramente, rischia di diventare come l’Italia, un paese dove le carte del mercato sono truccate. Per Zingales l’Italia paga la sua storia: il clientelismo strutturale ce l’ha regalato la Chiesa medievale, con campioni come il papa Borgia e i suoi figli.
I nostri poteri medievali
I retaggi di quell’epoca ci assediano. Un papa tedesco, come nell’XI secolo, definisce atmosfere pre-luterane. La Chiesa è potente come non mai, incassa le sue decime (l’8 per mille più tutto il resto) e resta esente dall’Imu. Benedice il potere politico, che si inginocchia. La democrazia è un miraggio per i secoli venturi. Al Quirinale c’è un “re taumaturgo” con poteri miracolosi. Le sue massime più scontate vengono studiate da eserciti di teologi (i monaci costituzionalisti). Egli nomina il suo Richelieu e vassalli che portano il titolo di “ministro tecnico” . Le elezioni e le primarie che le propiziano sono riti di preghiera rivolti al sovrano che decide, affidando il governo a chi non si è candidato. Si coniano nuovi titoli nobiliari: “riserva della Repubblica”, “risorsa preziosa”. La disputa teologica sulla eleggibilità del senatore a vita riproduce la concretezza del concilio di Nicea (787 d. C.). Il popolo disorientato viene indirizzato a guaritori in grado di resuscitare aziende automobilistiche decotte. Il parlamento non è eletto ma nominato, come prima della rivoluzione industriale. L’idea di restituire al popolo quel potere estremo detto “preferenza” fa inorridire i feudatari che si difendono dall’orda dei parvenu, degli arricchiti, come Maria Antonietta nel 1789.
Sventolando il tablet, siamo in marcia verso il feudalesimo, ma la classe dirigente ha una bomba sociale sotto le sue poltrone. Il terzo stato non c’è più: stranieri, plebe, servi della gleba tutt’al più, un popolo di esclusi che si allarga giorno per giorno a schiere di insegnanti, impiegati, laureati senza chance. Chi solleva dubbi è liquidato come peccatore, populista, demagogo. Eppure il liberista Zingales, defensor inesausto del capitalismo, ci racconta proprio di una bomba da disinnescare, e non solo in Italia, dove siamo più avanti verso il neo-feudalesimo, ma negli Stati Uniti.
A partire dal 1973 (prima crisi petrolifera) produttività e salari hanno smesso negli Usa di andare a braccetto, e si è aperta la forbice: la produttività ha continuato a crescere impetuosamente (è più che raddoppiata in quarant’anni), i salari reali si sono fermati. Il lavoro prendeva il 40 per cento del prodotto dell’industria, adesso il 25 per cento. La distanza tra ricchi e poveri aumenta, il ceto medio, architrave del capitalismo, scompare. Quel che è peggio, si riduce la mobilità sociale. Per chi nasce “sfigato” aumentano le probabilità di restarlo.
Gli americani, spiega Zingales, sono un popolo scappato dall’Europa in cerca di un’occasione, e le cose sono andate bene grazie alla comune fede nella regola base: se si gioca pulito c’è una chance per tutti. Oggi contro i bari (banchieri, manager strapagati, politici corrotti) sta esplodendo in America una reazione viscerale, scrive Zingales, quella di un popolo che non crede più a un gioco dove perde sempre. Il capitalismo, di corruzione, può anche morire. Il timore, per Zingales, è che il popolo americano semplicemente si ritiri dal gioco. L’ammutinamento silenzioso è una bomba sociale innescata, più insidiosa dei moti di piazza.
I precari della gleba
Il libro “Precari” (Il Mulino) l’ha scritto un economista del lavoro, l’inglese Guy Standing, ideologicamente di sinistra, agli antipodi di Zingales. Per Standing il precariato rappresenta ormai un quarto della popolazione occidentale, ma non è una classe sociale vera e propria, in quanto “frammentata”, composta “da persone che non intrattengono alcuna relazione che supponga una legittimazione reciproca né con il capitale né con lo Stato”. I precari hanno una vita segnata dall’insicurezza e senza speranze di carriera, sono dei non-cittadini, non hanno identità professionale, non riescono neppure a immaginare il futuro, soffrono di ansia e depressione.
Questo capitalismo somiglia a un nuovo feudaleismo. Per Marx, in questo concorde con gli economisti classici, la dialettica capitale-lavoro è “diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio di merci”. Il capitalismo è una società conflittuale, ma anche compatta, organizzata, integrata, che dà al proletario identità, dignità, cultura. Adesso, invece, per Standing cresce nel ventre stesso dell’Occidente una “classe esplosiva”. Come gli americani di Zingales, i precari di Standing si allontano dal “capitalismo clientelare”, non fanno vita sindacale né politica. Vivono in un ignoto altrove politico-sociale.
La società di Bloch, forse una profezia
“La società feudale” fu scritto all’inizio del ‘900 dal grande storico francese Marc Bloch. Descrive un sistema che non crede nell’innovazione e non vi investe, dove girano pochissimi soldi e si fa ricorso, piuttosto, all’autoconsumo: “Grandi e miseri vivevano alla giornata, obbligati ad affidarsi alle risorse del momento e quasi costretti a consumarle subito”.
“Alla giornata”, cioè senza futuro, cioè da precari. La società feudale nasce dalla ritirata dello Stato, il Sacro Romano Impero, che abbandona a se stesse relazioni economiche dominate da rapporti di lavoro servili. Un mondo bloccato, con poca industria, senza mobilità sociale, con deboli pilastri culturali. Scrive Standing: “Una lezione dell’Illuminismo è che l’essere umano dovrebbe essere in grado di guidare il proprio destino, evitando di demandarne il controllo a Dio o alle forze naturali. Al precario viene però detto che deve accogliere in tutto e per tutto le forze del mercato come propria guida”. Le leggi del mercato imposte come superstizione autoritaria ci guidano verso il futuro.
Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2012