Secondo il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, l'Ilva "imperterrita" ha continuato a produrre nonostante l'autorità giudiziaria avesse sequestrato l'impianto. L'azienda del gruppo Riva, quindi, non avrebbe potuto far uscire dalla fabbrica nessuno tipo di lavorato o prodotto
“Una situazione paradossale”. Il giudice per le indagini preliminari di Taranto, Patrizia Todisco, bolla così quella che definisce “la situazione attuale dell’Ilva” che “imperterrita” ha continuato a produrre nonostante l’autorità giudiziaria avesse emesso un primo provvedimento il 26 luglio del 2012, poi confermato dal Riesame e così fino in Cassazione, di blocco della produzione. L’azienda del gruppo Riva, quindi, non avrebbe potuto far uscire dalla fabbrica nessuno tipo di lavorato o prodotto. Tutto l’acciaio prodotto all’Ilva da quel giorno in poi è frutto di un reato. Quel disastro ambientale provocato da un riversamento continuo “nell’ambiente circostante e non di una quantità rilevante di sostanze altamente nocive per la salute umana” e non solo. I prodotti lavorati finali sono, nel ragionamento del gip, il “frutto” di un avvelenamento del territorio, degli animali e delle persone che, secondo i rapporti epidemiologici, ha portato il territorio ad avere un’incidenza di tumori spaventosamente alta.
Nel complesso di una vicenda magmatica, tra perizie e controperizie, una delle certezze del giudice è che l’attività produttiva dell’Ilva, che “ha provocato e provoca danni ambientali e sanitari inaccettabili”, è caratterizzata dalla “piena illiceità penale”. L’acciaio, che fino a oggi ha dato lavoro a oltre 5000 mila operai nella sola città pugliese, è “frutto dell’attività in tale (illecito) modo posta in essere dal Siderurgico” e di conseguenza costituisce il prodotto “dei reati contestati e quindi cosa pertinente agli stessi”. Una sorta di estensione del reato che prolunga il sequestro dall’azienda all’acciaio. Come se l’inquinamento prodotto avesse “infettato” l’accaiaio.
L’Ilva ha continuato “imperterrita nella criminosa produzione dell’acciaio, nella vendita di questi prodotti assicurandosi lauti profitti non curante delle disposizioni dell’autorità giudiziaria e in violazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali sopraindicati (i decreti di sequestro, ndr). Questa riflessione giuridica – il gip cita alcune sentenze di Cassazione in ordine alla confiscabilità – motiva quindi il sequestro preventivo “del prodotto finito e/o semilavorato” dell’Ilva nelle relative aree di stoccaggio e “destinato alla vendita ovvero al trasferimento in altri stabilimenti del gruppo”. L’Ilva quindi, a questo punto, non può vendere nessuno dei prodotti lavorati: anche perché in qualche modo commetterebbe una vera e propria ricettazione.
Il nuovo provvedimento, che ha scatenato la decisione del gruppo di chiudere lo stabilimento definita dalla Fiom “una rappresaglia“, è stato eseguito in giornata dai militari della Guardia di Finanza di Taranto, che hanno consegnato i beni ai custodi-amministratori degli impianti dell’area a caldo. Con questo provvedimento e con gli altri successivi all’Ilva veniva escluso “radicalmente – osserva il gip – qualsiasi facoltà d’uso mirata all’attività produttiva”, l’uso poteva essere autorizzato “solo a finalità di risanamento”. Ma così non è stato.
Sono dodici le persone indagate in questa nuova tranche di inchiesta. E tra queste per la prima volta compaiono il presidente dell’Ilva, Bruno Ferrante, protagonista di un lungo braccio di ferro con l’autorità giudiziaria, e l’attuale direttore dello stabilimento tarantino, Adolfo Buffo. Gli altri protagonisti finiti nel registro degli indagati sono Emilio Riva, i due figli Nicola e Fabio, l’ex direttore Luigi Capogrosso, l’ex dirigente Girolamo Archinà e i dirigenti Marco Andelmi, Angelo Cavallo, Ivan Dimaggio, Salvatore De Felice e Salvatore D’Alò. Per i tre Riva, Capogrosso e Archinà c’è l’ipotesi di reato di associazione a delinquere finalizzata ad eludere problemi nelle autorizzazioni per l’esercizio dell’attività produttiva. Per Ferrante e Buffo c’è l’accusa di non aver osservato i provvedimenti dell’autorità giudiziaria e, sempre in concorso con gli altri, di aver omesso di attuare tutte le procedure per evitare sversamenti o emissioni nocive nell’aria e nei terreni. “Nessun dubbio – conclude il giudice nelle undici pagine del decreto di sequestro – che lasciare nella disponibilità degli indagati il prodotto finito o semilavorato del siderurgico per la sua successiva monetizzazione ovvero l’impiego in altri stabilimenti del gruppo, costituisca un incentivo a proseguire nell’attività criminosa che invece occorre bloccare”. Da Genova i sindacati fanno sapere che senza l’acciaio avvelenato di Taranto lo stabilimento, con oltre 1760 operai, ha quattro giorni di autonomia. L’interno comparto siderurgico invece contempla ben oltre i 36 mila lavoratori.