Un’azienda da tredici milioni di fatturato l’anno e mille dipendenti. Una società leader nel settore dei call center. Completamente a disposizione della ‘ndrangheta. E’ questo l’ultimo fotogramma scattato dall’inchiesta milanese che sabato scorso ha svelato gli interessi in Lombardia della potente cosca Bellocco di Rosarno. Eppure c’è di più: poche righe a pagina 296 dell’ordinanza cautelare firmata dal gip Giuseppe Gennari. Scrive il giudice: “Assumendo persone e procurando lavoro la ‘ndrangheta acquista consenso, dimostrando di essere in grado di fare quello che lo Stato non sa fare”. Questo uno degli obiettivi principali che ha spinto il giovane boss Umberto Bellocco a dare la scalata alla Blue call di Cernusco sul Naviglio. Chiamati da Andrea Ruffino, imprenditore lombardo e incensurato, per sollevarlo da vecchi soci scomodi (e mafiosi), gli uomini della Piana entrano, occupano e comandano. Soprattutto il giovane erede del clan che di sé va dicendo: “I miei impegni sono più alti di un sindaco”.

Strumento di potere
Posti di lavoro e voti. “Il passaggio successivo sarebbe stato questo – rivela un investigatore milanese – ma per fortuna li abbiamo fermati prima”. La ‘ndrangheta come un partito che garantisce impieghi e stipendi. Ragiona il gip di Milano: “Controllare una realtà del genere (la Blue call, ndr) vuol dire controllare un notevole indotto lavorativo, di grande interesse soprattutto in questo periodo di difficoltà economiche e occupazionali”. L’obiettivo è chiaro: prendersi aziende in salute da utilizzare come strumento di potere. E non importa che gli assunti, poi, abbiano capacità professionali, ciò che conta è averli a disposizione quando servono. Loro e le loro famiglie. Emilio Fratto è un commercialista e consulente del lavoro (attualmente latitante). Sarà lui a portare Ruffino dai Bellocco. Dopodiché dalla cosca riceverà il compito di gestire la Blue call. Eppure, nonostante questa promozione sul campo, lo stesso Fratto si lamenta di come “con questa gente non si può mai costruire perché (…) pensano che loro sono in quattro e ti portano dieci persone”. Il senso è chiaro: “Se io tolgo le persone perché devo diminuire i costi, non è che posso aggiungere altri costi (…) Se io tolgo delle persone, è perché non mi servono”. La ‘ndrangheta fa il ragionamento opposto: aggiungere persone perché servono ad aumentare il potere sociale del clan.

Boss o imprenditore
Non sarà allora un caso che proprio oggi, durante i primi interrogatori di garanzia nel carcere di Opera, Carlo Antonio Longo, referente delle cosche per il nord Italia, nel corso di dichiarazioni spontanee abbia confessato: “Io faccio l’imprenditore e sotto la mia gestione l’azienda stava andando bene”. Dice di più: racconta di futuri investimenti e soprattutto di nuove assunzioni previste. Naturalmente nessun cenno al suo rapporto con Umberto Bellocco, il giovane e capriccioso principe di Rosarno. Eppure dalle intercettazioni emerge una reverenza singolare verso un ragazzo poco più che ventenne.

Del resto Longo dimostra di conoscere molto bene regole e metodi della ‘ndrangheta. Tanto da rivolgersi in questo modo ad Andrea Ruffino che vuole ostacolare la presa definitiva della sua azienda: “Adesso mi hai rotto i coglioni (…) vaffanculo tu e tutta la razza tua (…) vedi che vengo e ti prendo stasera a casa e ti spacco di botte a te e a tutta la razza tua… pezzo di merda che non sei altro (…) bastardo che non sei altro (…) mi stai facendo fuori di testa e se devo avere qualche problema per te ti faccio pentire pure che sei nato (…) bastardo!”

Agenzia di servizi, la migliore sul mercato
Non c’è che dire per uno che si presenta come imprenditore di successo capace di tenere fissa la barra di un’azienda da mille dipendenti. Ma la ‘ndrangheta è proprio questo: uno specchio a due facce. Da un lato ci sono i boss in doppiopetto che “rappresentano la più efficace agenzia di servizi esistente sul mercato”, capaci di soddisfare le richieste degli imprenditori “dalla necessità di denaro liquido, al desiderio di affrontare il mercato della concorrenza con una marcia in più”. Dall’altro lato, però, c’è la violenza e l’intimidazione. Quella, ad esempio, che usa Longo per cacciare l’ex amministratrice della Blue call. “Se tu vuoi avere un rapporto con me – le dice -, fuori dall’azienda facciamo quello che vuoi, ma non devi mettere più piede là dentro (…) non entrare più” o in alternativa “vieni, chiedi permesso, ti chiama la persona interessata, fai il tuo colloquio e vai via. Non devi gironzolare negli uffici”.

La sconfitta della bella impresa lombarda
Insomma, le aziende, in particolari quelle lombarde (come già fu la Perego strade), non servono per riciclare. Nella Blue call Longo e compagni non ci metteranno un euro. Il loro obiettivo è il potere. Un diamante in più da aggiungere alla loro corona di imperatori. Perché tali si comportano in Calabria, ma anche al nord. E l’ultimo capitolo della storia centenaria dei Bellocco racconta proprio di questo. Di una bella classe imprenditoriale lombarda “che – scrive Gennari – apre le porte alla mafia”. Con le cosche gli imprenditori “bauscia” all’inizio guadagnano, quindi si illudono di cacciare i calabresi con una buona uscita. Ma la ‘ndrangheta non vuole soldi, vuole potere per rinforzare il suo Stato.

Michele Bellocco: dialogo finale
Ecco allora come ragionano due capi di questo mondo a parte. “Stavano facendo una legge – ragiona Michele Bellocco, zio del giovane Umberto – : o ci confiscate i beni, o ci date la galera! Decidete una cosa ce la prendiamo! Poi vuoi la libertà, ti vuoi prendere a libertà, prendetevi la libertà!”. Il boss parla nella casa di Giuseppe Pelle, il capo dei capi della ‘ndrangheta di San Luca. Un appartamento diventato simbolo di potere e “delinquenza”. Laggiù ai piedi dell’Aspromonte andavano tutti: mafiosi e politici, imprenditori e gente dello Stato. Ore e ore di intercettazioni raccontate nell’inchiesta Reale. Prosegue Michele Bellocco: “Volete i beni, lasciateci liberi per farci gli altri” perché “la pagnotta la dobbiamo scippare o in una maniera o in un’altra, che dobbiamo fare!”.

 

 

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