Nonostante le denunce delle Ong sull'uso di armi non convenzionali, le bombe a grappolo continuano a uccidere. Mentre cresce il numero dei rifugiati, soprattutto tra i più giovani, per i quali si rende necessario un supporto psicologico. Molti, tra i bambini vittime del conflitto, sviluppano traumi, dallo "sciopero della parola" a vere e proprie schizofrenie
BEIRUT – «Un parco giochi così vasto non può essere stato colpito per caso, non ce ne sono molti a Damasco, è impossibile che l’aviazione non sapesse cosa stesse mirando. Per questo hanno usato le bombe a grappolo». La reazione di Abu Abbas, attivista appena arrivato in Libano dalla capitale siriana è lapidaria. Le sue parole riguardo il bombardamento dell’aviazione siriana sul parco di Deir- al Asafir, in cui sono rimati uccisi nove bambini e una donna, sono cariche di indignazione verso un «Occidente che sta fermo a guardare mentre il paese precipita in una spirale di violenza ormai irreversibile». L’uso delle armi non convenzionali era già stato denunciato da Human rights watch il 14 ottobre scorso, mentre da marzo Save the children ha riattivato i suoi programmi di educazione per il riconoscimento delle mine antiuomo disseminate lungo il confine siro-libanese, nella zona di Wadi Khaled. Le cluster bomb sono proibite da una convenzione internazionale del 2008, il regime di Damasco non ha però sottoscritto il bando.
Husain al Sheaik, invece, racconta sconfortato dell’attacco aereo di stamattina sulla sua piccola città: Atme, nel Nord della Siria. «È da un mese che denuncio il sovraffollamento dei campi profughi nella nostra terra. Oggi scappano a migliaia e non sappiamo dove farli riparare». Villaggio di cinquemila anime a ridosso del confine turco, nella zona di Antakya, Atme aveva finora goduto di una no fly zone de facto dovuta all’estrema vicinanza con la Turchia. Per questo era stata scelta come quartier generale dell’Esercito libero siriano che fino al bombardamento di stamani aveva avuto una totale libertà di movimento sul territorio. A parte la presenza dei militari, Atme ha rappresentato per mesi il punto di passaggio per decine di migliaia di profughi intenzionati a oltrepassare il confine per andare in Turchia. Le condizioni di sovraffollamento delle tendopoli turche però hanno impedito a oltre 10mila persone di sconfinare. Così a fine settembre sono nate le prime baracche fino alla creazione di un vero e proprio slum, da cui oggi però son dovuti fuggire i profughi a causa delle bombe. E non cessa l’afflusso dei profughi neanche in Libano, dove i bambini siriani che arrivano presentano disturbi psicofisici molto gravi.
«Ansia, mutismo, sonnambulismo, insonnia, incontinenza e anche alcuni casi di schizofrenia». Sono queste le patologie più gravi riscontrate da Ahmed Eddress, psicologo originario di Homs che lavora ora presso l’ospedale pubblico di Tripoli, città Nord del Libano dove vive la maggior parte degli oltre 107mila profughi siriani registrati nel Paese. Nella neonata ong siriana Watan, invece, un team di giovani psicologici sta per iniziare un progetto di psicoterapia di gruppo per i piccoli che presentano traumi meno gravi come “lo sciopero della parola”. Sono in molti infatti ad aver smesso di parlare da quando hanno attraversato il confine, rifiutando la nuova realtà e la perdita dei vecchi punti di riferimento.
Ad Arsal, cittadina montana libanese sulla frontiera, un’anziana di Homs, nonna di una bambina orfana, racconta di essere costretta a legare la piccola a sé la notte. «Mona – spiega la donna riferendosi alla nipote di otto anni – da quando ha perso la madre soffre di ansia e sonnambulismo. La notte sono costretta a legarle una manina a me perché potrebbe uscire senza che io me ne accorga. Nella nostra casa non c’è la porta. Come faccio a sentirla?». Oltre a Mona, non mancano i bambini che hanno perso i genitori, per loro però non ci sono strutture specifiche perché vengono presi in custodia dai familiari più vicini. Al momento non esiste quindi né un orfanotrofio, né un censimento ufficiale di quanti orfani siriani abbia prodotto questo conflitto che conta oltre 40.000 vittime dall’inizio delle rivolte, del 15 marzo del 2011.
di Susan Dabbous