"Raccontano storielline carine per una cultura d'appartenenza. Come per i thriller e la letteratura/teatro/cinema della memoria". Esce Babooschka, il nuovo romanzo "apocalittico" dello scrittore bolognese, e l'indignazione intellettuale è sempre la stessa: "Bologna laboratorio politico? Solo un modo con cui la Dc prese voti al Pci. E ha funzionato"
Premessa per il “sincero democratico” in ascolto; con Luigi Bernardi casca male.
«Sei un sincero democratico?» mi domanda sorridendo dalla sua casa nel centro di Bologna «ti converrebbe…» aggiunge. Luigi Bernardi è sempre lui, un pessimista raffinato.
Il suo nuovo romanzo – che uscirà in e-book il 6 dicembre 2012 – si chiama Babooshka (Perdisa Pop) ma Kate Bush stavolta non c’entra, non del tutto perché come ci dice lui stesso «Babooshka è il nome di un cane e il romanzo racconta la storia di un tale, che potrei anche essere io, che ad un certo punto della vita molla tutto, non ne vuole più sapere dell’umanità e (assieme alla sua donna) si rifugia in una casa sul mare della costa ionica.
Da questa casa si tengono informati di quello che succede al mondo, e a un certo punto sono raggiunti dalla notizia che è esploso il Vesuvio – io lo chiamo “il vulcano”. A questo punto lui vuole vedere cosa è successo, vuole guardare negli occhi l’apocalisse e così prende donna e cane (il cui nome è appunto Babooshka) e va incontro all’apocalisse».
Luigi Bernardi in fondo è questo che ha fatto di mestiere, pedinare e raccontare l’uomo in cammino verso l’apocalisse. Per fare questo non ha avuto altra scelta che precederlo, come un esploratore dal registratore sempre acceso.
Nato a Ozzano dell’Emilia, classe ’53, soprattutto per i bolognesi Bernardi non è solo scrittore, saggista, ed editor (di fumetti e narrativa) bensì il papà di Granata Press, memorabile esperienza editoriale radicata in città che, fino al 1996, ha sfornato libri, riviste ed esplorato il mondo del fumetto proponendo – fra le altre cose – la pubblicazione di Ken il guerriero e delle due riviste contenitore Zero nippon comix e Mangazine, che ebbero il merito di lanciare il mercato dei manga in Italia.
Ha diretto collane noir presso Hobby and Work e DeriveApprodi, nonché progettato la serie Noir di Einaudi Stile Libero e a lui dobbiamo letture – in italiano – del calibro di Didier Daeninckx, Paco Ignacio Taibo I, Paco Ignacio Taibo II, Léo Malet, Jean-Patrick Manchette, Patrick Raynal e Andreu Martin.
La chiacchierata con Bernardi non può che cominciare con lo stato di salute dell’editoria.
«L’editoria, meglio ancora il lavoro editoriale, non esiste più. Questo perché ognuno ha già i suoi libri, tu come lettore hai già quello che deve piacerti. Sei quello che definiscono un sincero democratico? Bene, ti leggi Camilleri e Carofiglio che ti raccontano storielline carine ed innocue che ti fanno sorridere.
Le donne hanno i loro libri, quelli un po’ spintarelli che vanno di moda adesso o altri che si limitano ad annaffiare la loro vena shopping, e naturalmente il “sincero democratico” si abbevera al mansueto filone giallo/legal thriller internazionale con la – ben risposta – speranza di sentirsi rassicurato circa la vittoria finale del bene e tutte queste belle cosine perché ricordati che la sorte disperante del sincero democratico è di non essere mai disperato.
Dimenticavo – aggiunge – c’è il discorso della “memoria” (cinema della memoria, teatro della memoria, letteratura della memoria) che fa molto fatturato senza, ovviamente, spostare minimamente la percezione che abbiamo degli eventi o scalfire la verità storico processuale, però è importante per il “sincero democratico” coltivare la memoria, qualunque cosa significhi».
Ho l’impressione che stiamo per parlare di “cultura di appartenenza”…
«Esattamente – risponde Bernardi – è un meccanismo implacabile. Tu fai certe cose devi leggerne certe altre, diventi proprietà mentre credi combatterla. Fai parte di un paniere nel quale ci sono anche le tue letture. Come fai dunque a lavorare nell’editoria se ognuno ha già i suoi testi di appartenenza? Non puoi fare altro che vidimare queste appartenenze e questo mi sembra tristissimo».
Anche tu però, magari nel tuo mestiere di precursore, sei stato “appartenente” sotto un certo aspetto, pubblicare i Manga in Italia in quel momento non significava questo?
«Questo è vero, sono stato il primo a pubblicare i Manga, classico prodotto che apparteneva a quel tipo di generazione e nessun altro, però avevamo aperto tanti discorsi. Penso a quello del giallo italiano per esempio che, secondo me rispetto quello che poteva dare, ha offerto ben poco.
Il catalogo narrativa di Granata Press, ad esempio, è stato vincente perché ha saputo – apparentemente – perdere in quel momento, ma oggi quando vedo i miei titoli di allora saccheggiati dalla grande editoria sento che ho lavorato bene».
Sei stato uno che arrivava per primo, qual è la tua prossima idea per arrivare primo?
«Prima di cosa? Bisognerebbe creare un nuovo umano fatto in modo particolare sul quale puoi appiccicare una specifica editoria, non puoi concepire un’editoria diversa da questa e non te la fa fare il pubblico per primo perché la roba diversa non te la compra».
E il fumetto come se la passa?
«Sta anche peggio, però almeno ha un futuro; il digitale. C’è un residuo di fumetto che si muove in edicola ma quello è un luogo destinato a morire, e purtroppo in Italia non c’è ancora la digitalizzazione del fumetto. Dico purtroppo perché se è vero che l’appassionato di fumetti non è più quello che negli anni sessanta scriveva lettere premettendo se il tuo lavoro era stampato bene, su quale tipo di carta e sulla qualità dell’inchiostro, è anche vero che i formati sarebbero perfetti per I-Pad e Kindle.
Le fumetterie da sole non potranno reggere, il mercato franco/belga del fumetto è in calo, quello statunitense pure, ma si sta riprendendo nel digitale; è lì il futuro del fumetto perché è come lui, veloce e poco costoso (basta una matita e un pezzo di carta). E comunque, in letteratura, nel fumetto etc, servirebbero anche nuovi veri protagonisti, nuovi artisti; è anche il carisma che aiuta un mercato».
E dal fumetto iniziamo a ragionare sul “deficit di carisma”. C’è anche a Bologna?
«Sai, pensa solo al fumetto, in questa città girava gente come Bonvi, Magnus, Pazienza… Di cosa stiamo parlando? Lo stesso vale per la musica e penso a Dalla, Guccini e tutti gli altri; Bologna ha dato tantissimo alla musica italiana, ma il carisma non ha ricambio automatico, non è un tubero. Ormai purtroppo di automatico c’è solo l’indignazione intellettuale …».
Non scappi, cosa intendi per indignazione intellettuale?
«Da quanto tempo noi (intellettuali) non diciamo una cosa nuova? Mi spiego, ho seguito con un filo di tristezza le consuete vibranti proteste del mondo intellettuale per le tristi manganellate agli studenti durante i cortei della settimana scorsa. Non credo di dover mostrare patenti di libertà a nessuno, la mia storia è chiara, e proprio per questo mi ha intristito l’automatismo col quale una certa tipologia di intellettuale italiano (sempre sincero democratico) ha sentito nuovamente l’esigenza di puntualizzare alcune ovvietà sulle quali tutti concordiamo, sembrando più preoccupato di rivendicare la sua appartenenza piuttosto che capire le ragioni della protesta stessa. E su questo aggiungo una piccola postilla, non sulla protesta ma sulle sue forme; io non posso aderire o sentirmi rappresentato da un modo di rivendicare diritti che ponga alla testa di un corteo uno striscione con scritto “Profumo di merda”. Non ce la faccio, fermiamoci un attimo. Proviamo a dire qualcosa di nuovo? Ce l’abbiamo questo coraggio?».
Una cosa nuova?
«Che Ken Loach poteva risparmiarsi la sceneggiata di non ritirare il premio a Torino perché, eventualmente, non è così che darà forza alla “causa” dei lavoratori».
E adesso, per concludere, non vorrai mica togliere al “sincero democratico” anche il gusto di ripetersi che Bologna è “un laboratorio politico”?
“Se adesso è un laboratorio c’è da prendersi paura. Una volta lo era davvero, anche se – diciamoci la verità – “Bologna laboratorio politico” altro non significava che inventarsi un modo attraverso il quale un democristiano prendesse i voti dei comunisti. E mi pare che abbia funzionato no?”