Marton Gyongyosi, deputato di punta del partito di estrema destra Jobbik, si giustifica: "Le mie parole sono state mal interpretate". Ma le scuse non bastano per rassicurare la comunità internazionale: la sua forza politica è la terza in Parlamento
La parziale rettifica è arrivata quando ormai il caso era scoppiato. Marton Gyongyosi, deputato di spicco del partito di estrema destra ungherese Jobbik ha in parte ritrattato la sua richiesta di stilare una lista dei funzionari di origine ebraica perché a suo dire sarebbero potuti essere una minaccia per la sicurezza del Paese e ha giustificato le proprie parole con le tensioni provocate dall’ultimo conflitto a Gaza. Minimizzando le sue dichiarazioni Gyiongyosi ha spiegato di riferirsi non agli ebrei in generale, ma alle persone con doppia cittadinanza ungherese e israeliana. “Mi scuso con i miei compatrioti ebrei se le mie parole sono state mal interpretate”, ha scritto il deputato sul sito del partito. Ma come sottolineato al Financial Times la deputata liberale Timea Szabo, presidente del comitato parlamentare per i diritti umani, altre volte i membri di Jobbik non è la prima volta che esponenti di Jobbik si lasciano andare a commenti antisemiti o contro la comunità, ma mai erano arrivati a chiedere le liste.
Con 44 seggi su 386 Jobbik, o movimento per l’Ungheria migliore, è il terzo partito del Paese, è ha forti legami con l’organizzazione nazionalista e paramilitare della Guardia ungherese, dichiarata illegale. I leader del movimento hanno sempre negato le accuse rivolte, sostenendo di voler soltanto proteggere gli interessi e i cittadini ungheresi. Sebbene nel caso Gyongyosi l’esecutivo abbia condannato le dichiarazioni del deputato, per i liberali e partiti della sinistra a favore dell’estrema destra gioca anche l’accondiscendenza del primo ministro Viktor Orbán e del suo partito Fidesz che tengono una linea morbida verso Jobbik, utile per conquistare voti in quell’area politica. Soprattutto ora che la crisi morde e il governo è stato costretto a varare misure di austerità e chiedere sostegno al Fondo monetario internazionale e all’Unione europea.
Strategia che ha concorso anche a radicalizzare le posizioni e le decisioni del governo di Budapest, come nel caso dell’approvazione della nuova costituzione, entrata in vigore all’inizio dell’anno, che hanno permesso di modificare il quadro istituzionale con tratti che la filosofa Agnes Heller ha definito bonapartisti.
Sebbene possa contare su un’ampia maggioranza Orbán (che un tempo si definiva liberale) non è immune al populismo più estremo, spiega Tibor Dessewffy sull’European Council on Foreign Relations, per evitare che Jobbik possa arrivare al potere deve ricorrere alla retorica radicale e fare presa su alcuni temi come il rischio che lo stile di vita ungherese sia distrutto; l’arrivo dei “barbari” alle porte del Paese siano essi immigrati o minoranze; i pericoli della globalizzazione.
Argomenti che trovano ampio spazio nel programma di Jobbik. Sul piano economico, scriveva l’Economist in una carrellata sui movimenti populisti e razzisti che stanno prendendo forza in Europa, l’estrema destra ungherese è anche abbastanza “sofisticata”. Si tratta di un mix tra controllo statale, protezionismo, sostegno alle piccole imprese e ai contadini, con un forte astio verso nazionali e società straniere in generale.
Per quanto riguarda le discriminazioni oltre alle sparate antisemite il partito ha trovato negli 800mila rom, su una popolazione ungherese di 10 milioni, il bersaglio ideale. Il nome di Jobbik ricorre nei rapporti di Amnesty International che denunciano gli attacchi e le violenze contro la comunità rom condotti da gruppi di vigilantes. L’ultimo episodio in ordine di tempo, senza incidenti ma foriero di tensioni, è stata la doppia marcia di metà ottobre nella città di Miskolc, nell’Ungheria orientale. Da una parte i militanti di Jobbik per protesta contro quelli che definiscono i crimini dei rom e che fanno leva sui tagli al bilancio, anche nel settore sicurezza, che lascerebbero indifese alcune aree del Paese, soprattutto nei centri più piccoli. Dall’altra parte circa un migliaio di rom che lamentano anche disoccupazione e chiedono opportunità e migliori condizioni.
di Andrea Pira