Rigorosamente in bianco e nero, i primi intervalli riprendevano a telecamera fissa un gregge di pecore al pascolo, mentre al centro dell’inquadratura campeggiava una magrittiana scritta a caratteri cubitali. Intervallo, appunto. Poi, forse perché questi primi esperimenti furono ritenuti troppo movimentati, si passò al fermo immagine; alle diapositive, sempre in bianco e nero, raffiguranti vedute e bellezze d’Italia, accompagnate quasi sempre dalla Passacaglia di Haendel per sola arpa. Come si vede, tutto all’insegna di un minimalismo vertiginoso.
Ma a partire dagli anni Ottanta, nella televisione italiana tutto cambia, e tutto aumenta a dismisura. Un’esondazione sistematica di conduttori, ospiti, studi, fasce orarie, repliche, canali, piattaforme che continua ancora adesso. Se la matematica non è un’opinione, in teoria avrebbero dovuto moltiplicarsi a dismisura anche gli intervalli.
E invece no. Proprio da allora l’intervallo comincia a diradarsi, fino a sparire una ventina di anni fa. Punto dalla nostalgia, ho provato ad appostarmi davanti al video a notte fonda e alle prime luci dell’alba, tra i più remoti anfratti del palinsesto. Ho fatto zapping tra le cinquine sicure dei cartomanti, le televendite del centerbe contro l’impotenza e la tomba di Padre Pio in cerca di un accordo d’arpa, lo scorcio di una piazza, il belato di un agnello. Insomma, di un Intervallo. Niente da fare. Finché mi sono messo il cuore in pace, e credo di avere capito anche il perché. L’intervallo non può tornare in tv semplicemente perché non esiste più nemmeno fuori dalla tv. In famiglia, in ufficio, in rete o nel weekend è perfettamente inutile cercare un nanosecondo di pausa, un attimo di vuoto. Perfino al cinema siamo tutti stipati uno accanto all’altro e quanto prima anche le pecore si iscriveranno su Facebook, altro che passacaglia di Haendel. Se poi per caso il vuoto si verifica, tutti ci precipitiamo a stroncarlo sul nascere, come un pericoloso virus. Così ormai mi sono rassegnato: l’unica cosa sopravvissuta dell’intervallo (non saprei dire ancora per quanto) è la sua nostalgia.
Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2012