Il vecchio ex banchiere, che va a messa tutte le domeniche, ha maturato nella sua lunga cavalcata ai vertici del potere finanziario una granitica sicurezza di sé: “Grandi demeriti, in verità non me li riconosco”. E soprattutto: “Le mie parole coincidono con la verità”. Ma è proprio il titolo, riferito al rito cattolicissimo della confessione, a segnalare al lettore la natura meramente soggettiva del suo concetto di verità. Infatti, per oltre 350 pagine di racconto Mucchetti non perde occasione per segnalare che lui non crede quasi a niente della versione di Cesare. E Geronzi accetta lo scontro e lo aggredisce: “Signor Mucchetti, la malizia l’acceca”. Solo su due cose i due trovano un punto d’intesa.
Il primo, di portata circoscritta, è la comune avversione per l’ex direttore del Corriere, Paolo Mieli. Mucchetti lo accusa di non avergli dato sufficiente spazio e apprezzamento (“Capisco la sua ironia”, sottolinea Geronzi, stavolta complice), il banchiere rivendica di aver contribuito decisivamente a silurarlo dalla poltrona di via Solferino per rimettere al suo posto Ferruccio de Bortoli: “Se adesso può scrivere tanto e con tanta evidenza, lo deve in larga misura a me”. Quando il banchiere spiega che il cambio al vertice del Corriere lo hanno determinato “il signor Geronzi insieme con il signor Nanni Bazoli” (non essendo laureato, il ragioniere che ha inanellato in successione le presidenze di Capitalia, Mediobanca e Assicurazioni Generali predilige un mondo popolato da signori), ci illumina sul secondo punto d’intesa con Mucchetti: lui e il presidente di Intesa San-Paolo non sono, come da letteratura, “i duellanti”, ma due amici, alleati, legati da reciproca stima, che hanno retto finché hanno potuto “il sistema”. Cioè quel reticolo di poteri finanziari collegati che avevano in Mediobanca la cabina di regia. Un mondo che ha cominciato a scricchiolare con la senescenza di Enrico Cuccia (fondatore e dominus per mezzo secolo della banca d’affari milanese) e il cui declino è stato solo rallentato, nell’ultimo decennio, dai due “arzilli vecchietti” (copyright Diego Della Valle), almeno fino a quando mister Tod’s non è riuscito, insieme ad altri giovani congiurati capitanati da Alberto Nagel di Mediobanca, a far fuori dalle Generali. Per il vecchio banchiere è la rivincita che conta: ribaltare una pubblicistica che lo ha visto spesso contrapposto, come uomo avvezzo al compromesso, alla cristallina purezza riconosciuta al collega di Brescia: “Lei che è di Brescia e conosce Bazoli da tanto tempo…”, ricorda all’intervistatore, e stavolta è l’intervistato a sembrare accecato da un lampo di malizia, e l’intervistatore sembra condividere la grande armonia Roma-Milano-Brescia.
In quell’amichevole “Nanni” c’è il senso profondo dell’autodifesa di Geronzi. Io, sembra voler dire, non sono il burino, nato ai Castelli e protetto da Giulio Andreotti prima e Silvio Berlusconi poi, da confrontare con i raffinati dottori e professori del Nord. E così si alternano notizie gustose a dissimulazioni quasi spudorate. Il banchiere abituato a navigare nei palazzi del potere romano ci spiega che quando c’era da scegliere il direttore del Corriere, nel 2003, l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e il segretario generale del Quirinale Gaetano Gifuni si consultarono con lui prima di dare l’informale via libera agli azionisti. “Il Colle entrava nella designazione del direttore del Corriere?”, chiede Mucchetti. Geronzi replica soave: “Per quanto ne so, non è sempre stato così”.
E poi notizie o notiziette, alcune nuove e interessanti sulle trame del potere economico, altre di futile cattiveria, come quella di replicare alle incalzanti domande sui rapporti con il piduista Luigi Bisignani ricordando che anche Michele Santoro ha collaborato con il piduista Maurizio Costanzo, altre ancora di puro veleno. Per esempio quando spiega il suo stretto, costante, amichevole rapporto con Massimo D’Alema, non manca di notare che quando l’allora segretario dei Ds gli chiedeva aiuto per sistemare i debiti del partito (oltre 500 milioni di euro) una delle ragioni del disastro economico del Bottegone erano i risultati fallimentari dell’Unità diretta da Veltroni, che indebitava il partito per allegare le videocassette al giornale.
Geronzi si ritiene esente da colpe, e si difende cristianamente. Quando Mucchetti gli rinfaccia di aver chiesto all’allora amministratore delagato della Rcs, Vittorio Colao, di fare una telefonata di scuse al governatore della Sicilia Totò Cuffaro per un libro della Bur che lo attaccava, Geronzi non fa una piega: “Avevo le mie ragioni per chiedere che si facessero quelle scuse, Colao avrà avuto le sue per non farle”. Segue, fulmineo, il rito della penitenza: mandar via Colao “è stato un errore gravissimo”. Amen.
Il Fatto Quotidiano, 28 novembre 2012