Francesco Cipriani, il dirigente del ministero del Lavoro che si occupava dei fondi alla stampa, ora lavora per la Confindustria degli editori, secondo cui non c'è alcun conflitto di interessi: "Cipriani ha semplicemente cambiato lavoro, come i giornalisti che passano da un quotidiano all’altro"
L’editoria italiana è in crisi, si sa, giornali e settimanali annaspano. È tanto vero che dal 2009, quando l’allora ministro Sacconi varò una legge ad hoc per consentire ai giornali di liberarsi con i soldi pubblici dei cronisti più anziani e meglio pagati, sono circa una cinquantina le aziende che hanno chiesto e ottenuto il cosiddetto “stato di crisi”. Dentro quella lista ci sono tutti i grandi quotidiani e le agenzie di stampa: il Corriere della Sera, la Repubblica , Il Messaggero , Il Sole 24 Ore, Avvenire, l’Ansa e via elencando in tre anni hanno mandato in prepensionamento centinaia di lavoratori e messo in cassa integrazione o sotto contratto di solidarietà altre migliaia.
I criteri per ottenere lo stato di crisi, d’altronde, sono abbastanza “elastici”: grazie al metodo Sacconi, non serve nemmeno che il giornale sia davvero in perdita, bastano anche solo le previsioni negative per il futuro. Tanto poi l’applicazione dei piani industriali – teoricamente obbligatoria per accedere ai fondi dello Stato – non la controlla nessuno. Ad alcuni, per dire, lo stato di crisi è piaciuto talmente tanto – il Sole, ad esempio, l’Ansa e altri – che hanno bissato: ne hanno fatti due di fila col beneplacito del ministero del Lavoro, che garantisce che le ristrutturazioni industriali le paghino i contribuenti. L’ultimo ad ottenere la seconda sovvenzione consecutiva è stato, incredibilmente, uno dei più liquidi imprenditori italiani. Si tratta di Francesco Gaetano Caltagirone, che ha già alleggerito le redazioni di tutti i suoi quotidiani di oltre 120 unità finora e adesso si appresta a far fuori da Il Mattino altri 12 giornalisti (dopo i 25 del primo stato di crisi): il provvedimento, approvato dai tecnici ministeriali, è alla firma di Elsa Fornero, ma nel frattempo nelle redazioni del quotidiano campano qualcuno è già in cassa integrazione. Rimane inevasa la domanda – per restare sul gruppo del costruttore e finanziere romano – sul perché lo Stato debba sobbarcarsi la riduzione del personale di un’azienda editoriale che dal 2000 al 2007 ha macinato 277 milioni di euro di utili, è poi stata in perdita per due anni e l’anno scorso è tornata in attivo per 3,5 milioni. Per di più, come ha raccontato Vittorio Malagutti su questo giornale un anno e mezzo fa, Caltagirone mentre prendeva soldi pubblici per prepensionare i suoi giornalisti, ha usato la cassa del gruppo editoriale per scalare Generali: il sindacato ne aveva ben donde, insomma, quando parlava di “presunta crisi del Messaggero“.
Ora, come detto, il Welfare si appresta a concedergli aiuti per Il Mattino e a buon punto è pure la trattativa per il secondo stato di crisi del quotidiano romano di Caltagirone. Nel frattempo, però, è accaduto un fatto imbarazzante quanto inopportuno, che rischia di bloccare l’oliata macchina delle sovvenzioni pubbliche all’editoria. L’uomo che, per conto del ministero del Lavoro, ha gestito in questi anni la partita dell’editoria, Francesco Cipriani, ex dirigente della divisione VII del dicastero, a ottobre ha pensato bene di andare all’improvviso a lavorare per la Fieg (la Confindustria degli editori), poco dopo peraltro aver dato parere positivo alla concessione degli aiuti al giornale napoletano: un passaggio da arbitro a giocatore, dicono fonti ministeriali, che non è piaciuto affatto a Fornero. La cosa non imbarazza invece gli editori. La Fieg, richiesta di un commento, conferma l’assunzione di Cipriani, che oggi si occupa proprio del suo precedente campo di lavoro – il contenzioso in campo occupazionale e previdenziale – ma non vede alcun conflitto di interesse: “Non abbiamo nulla da dire: Cipriani ha semplicemente cambiato lavoro come capita a molti, anche ai giornalisti che passano da un quotidiano all’altro”. Come che sia, il ministro Fornero potrebbe però chiedersi perché, mentre non si riescono a garantire gli “esodati”, si finanzi un editore che i soldi li ha permettendogli di mandare in pensione a spese nostre gente che ha 58 anni d’età e 18 di contributi.
Da Il Fatto Quotidiano del 30 novembre 2012