In questi giorni Umberto Scibile Veronesi, già presidente dell’Agenzia per la sicurezza nucleare (“Senza nucleare l’Italia è un Paese morto”), dopo il piccolo inconveniente di Fukushima e in vista della chiusura invernale di alcune bocciofile all’aperto, ha deciso di intraprendere la sua nuova battaglia: abolire l’ergastolo, “espressione di una giustizia vendicativa e non rieducativa, in piena contraddizione con l’articolo 27 della Costituzione italiana”. “La scienza ha definitivamente dimostrato che esiste un rinnovamento delle cellule cerebrali, e di conseguenza esiste la possibilità di una ristrutturazione intellettuale della persona”. “Riteniamo dunque l’abolizione dell’ergastolo un importante atto di civiltà“.
Con le dita sulle tempie e gli occhi stretti provo a immagine le cellule cerebrali made in Corleone di Totò Riina che si “rinnovano”, e mi chiedo perché, nel corso della ristrutturazione intellettuale del boss, egli non abbia mai sentito la necessità di pentirsi, di parlare con i magistrati, se è vero che cambiare, per Veronesi, è un fatto biologico. Una teoria che ha dunque fallito anche con Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Nitto Santapaola e altre decine e decine di boss tutti all’ergastolo. Se l’ergastolo venisse abolito, come auspica il lungi-minare, il legislatore non potrebbe certo scrivere “tranne questo, codesto e quello”. E dunque, anche e soprattutto per gli irriducibili, si aprirebbero le porte dei penitenziari.
Probabilmente l’esperienza e l’interesse di Veronesi rispetto al sistema neurologico degli ergastolani e dei boss ha anche una componente affettiva e deriva dalla sua conoscenza diretta con il boss-gangster Angelo Epaminonda, tenuto a battesimo, agli albori della sua carriera criminale, nientedimeno che da Francis Turatello. Lo raccontano gli autori del libro Mafia a Milano. Sessant’anni di affari e delitti (Melampo editore) (qui una mia recensione). Il libro di Portanova, Rossi e Stefanoni, che racconta la scalata delle mafie fino al Duomo, cita anche un gustoso episodio che vede protagonista il gangster e il celebre oncologo che lo va a trovare quando “il Tebano”, soprannome di Epaminonda, è ricoverato a Milano:
Una volta, ricoverato all’Istituto dei tumori di Milano per un melanoma al piede, riceve la visita del padre dell’oncologia italiana, Umberto Veronesi. Ecco, nel racconto di Epaminonda, la dinamica dell’episodio. Il Tebano, allarmato dalla presenza del medico, esclama: “Sto così male?”, e Veronesi: “Si calmi Epaminonda. Volevo solo darle il benvenuto. Un amico mi ha parlato di lei”. “E chi è questo signore?”. “Uno che era ospite del suo stesso collegio. Proprio ieri ho ricevuto posta da San Vittore”. Veronesi si riferisce a un “professore” che Epaminonda ha conosciuto durante l’ultimo periodo di detenzione. I giorni seguenti, le visite del medico al ricoverato si intensificano e appaiono sempre più sdolcinate: “Allora, come va il nostro malato?”. Fino a quando, una mattina, Veronesi sputerebbe il rospo: “Vorrei parlare del nostro amico comune. Ho saputo che se la passa piuttosto male. Vorrei che gli desse una mano”. Ed Epaminonda non si tira indietro: “Le garantisco che d’ora in poi sarà trattato come un pascià”. Detto fatto. Con il risultato di diventare, a sua volta, il paziente più coccolato del reparto.