Cominciamo dai titoli: E intanto Dustin Hoffman non fa più un film (ispirato al titolo del primo LP di Luca Carboni) e adesso il nuovo Forse in paradiso incontro John Belushi (la cui copertina è un disegno originale di Luca Carboni); Filippo Venturi sa come chiamare le cose che scrive. Sin dai titoli del suoi libri infatti, è chiaro il perimetro emotivo delle sue storie: Bologna (cioè noi). La trama del nuovo romanzo adesso.
Fuggito da Bologna per dimenticare una dolorosa verità, Andrea vive a Roma con Maddy, nascondendo al mondo intero il segreto inconfessabile che lo tormenta. Dieci anni dopo, in un’interminabile notte di agosto, il suo destino sembra riaffiorare: sull’autostrada che lo conduce in villeggiatura, una beffarda coincidenza lo rimette faccia a faccia con Pietro, l’amico di un tempo. È proprio in quella notte e su quella strada che qualcosa lo spinge a fare i conti con il passato e a ritornare nella sua città natale…
Il libro è stato presentato in anteprima in una libreria di via San Felice a Bologna. Luogo non casuale perché quella strada del centro città rappresenta l’infanzia e la giovinezza di Venturi, i giorni in cui gli amici, gli amori e lo sport (il “rione” della squadra di basket della Fortitudo ha puntualmente stampato l’aquila sul cuore di Filippo) scavano un solco indimenticabile. Un solco cui chi scrive ha avuto il privilegio di non essere, come dire, molto lontano. Nel suo scrivere c’è tutto questo e anche altro, ma come è iniziata questa storia? Perché la sera, magari a notte fonda, abbandonati i tavoli della sua trattoria in via Righi sempre nel centro di Bologna, Filippo si mette a scrivere?
«Il mio incontro con la scrittura è stato quasi casuale, l’ho incrociata come fosse una ragazza tra la folla dentro a un locale fumoso. Lei mi ha sorriso e io ho perso la testa. Oggi, proprio come se fosse la donna della mia vita, quella stessa che ho sposato e che mi ha regalato due bimbi strepitosi, non posso più starne senza».
Al contempo mi pare che tu abbia un rapporto “sereno” con la scrittura, più che un’ossessione la tua sembra una passione – nel miglior senso del termine – …
«Certo, perché sono e sempre sarò un amatore, nel senso positivo del termine. Nel nostro dizionario amatore significa dilettante. Ma significa anche colui che ama e io amo fare questa cosa. La pubblicazione dei libri hanno importanza marginale e non incidono su questo, scriverei comunque, anche alla rinfusa. E lo faccio».
Rispetto al tuo primo lavoro le storie dei personaggi, stavolta, si spostano anche fuori Bologna, eppure l’impressione di radicamento, di parentela quasi con questa città è molto forte. Bologna è ancora la regina del tuo scrivere? Qual è, in sostanza, il tuo rapporto con la nostra città?
«Non voglio fare troppo il romantico – non lo sono – ma devo nuovamente ricorrere alla parola “amore”. Questa volta riguarda la mia città. “Chi nasce a Bologna cresce con un unico obiettivo: non lasciarla mai.”, dice il protagonista di “Forse in Paradiso incontro John Belushi”. E aggiunge che Bologna è la sua coperta di Linus. E lo penso anch’io e allora per forza le mie storie partono da lì. In questo romanzo si spostano; a Roma, ma anche a Dublino, altra terra di gente col cuore grande. Ma io parto sempre per tornare».
Addentriamoci allora nel nuovo romanzo, da cosa lo trovi diverso rispetto a “E intanto Dustin Hoffman…”?
«Per prima cosa non si tratta di una serie di racconti, ma è un romanzo vero e proprio. E devo dire che portare avanti una storia compiuta, con personaggi che crescono e si sviluppano, è stata un’esperienza emozionante. Spero che la provvidenza e la santa ispirazione, senza la quale nulla si muove, mi aiutino a ripetermi».
Magari c’è anche una piccola presa di distanza dal personale, una storia un po’ meno autobiografica…
«Almeno negli intenti è così. Il mio vuole essere un tentativo di cambiamento – ed eventuale passo avanti – ed ho provato a mettere in prosa qualcosa che mi appartenesse meno rispetto ai racconti precedentemente pubblicati che, pur non essendo necessariamente autobiografici, si portavano dietro parecchia roba mia. Ho provato a immaginare personaggi meno miei, non tanto nell’identikit o nel modo di agire/pensare, quanto negli stati d’animo».
Quindi c’è un po’ di distanza fra te e Andrea Valenti, il protagonista della tua storia?
«Diciamo che Andrea Valenti, vive, al di là delle vicissitudini paradossali che lo travolgeranno, stati d’animo turbolenti che io non conosco, è costretto ad affrontare storie familiari tormentate che non hanno mai fatto parte di me. Fortunatamente ho sempre avuto un rapporto molto lineare coi miei genitori e pertanto, tentare di comprendere l’interiorità di chi è costretto ad affrontare tali traumatici turbamenti, è stato il vero banco di prova di questo “lavoro”».
Nel tuo scrivere sono forti i riferimenti e i richiami a cinema e musica…
«Il cinema e la musica – insieme allo sport – sono la mia vita. Il citazionismo è una componente fondamentale del mio modo di scrivere che, da nostalgico visionario quale sono, tendo ad eccedere con sfoggi di cultura pop al limite del trash anni ottanta. Direi che è un marchio di fabbrica, un tentativo di sdrammatizzare, anche le situazioni della vita più difficili. Le digressioni tragicomiche e le citazioni fatte anche nei climax delle storie sono la cosa che mi diverte di più, perché anche la vita dev’essere questa, se uno ci riesce».
Sdrammatizzare è fondamentale dunque?
«Sdrammatizzare sempre, tentare di vedere il bicchiere mezzo pieno. Andrea Valenti lo fa, e anche davanti alla concreta ipotesi di morte è travolto da un’inaspettata ondata di ottimismo e pensa al ricongiungimento col suo idolo di sempre».
Come vedi trasformata Bologna rispetto la tua giovinezza?
«Descrivere la Bologna di oggi è stato il motivo che mi ha spinto a scrivere questo romanzo. Vengo da un’esperienza in cui ho descritto la Bologna di ieri, quella degli anni Ottanta, periodo in cui da bambino sono diventato ragazzo e dove tutto pareva più semplice. Forse era l’età, sicuramente era la mancanza di frenesia. Se mi chiedi cosa è cambiato di più a Bologna, ti dico la frenesia. E la paura. A Bologna non abbiamo mai avuto paura, neanche negli anni più bui, neanche quando ci hanno fatto saltare in aria. Siamo rimasti aperti e solidali, diversi da tutti gli altri. Oggi anche noi abbiamo paura ed eravamo impreparati ad esserlo. E allora ci chiudiamo in casa e svuotiamo i giardini, dove i bimbi non vanno più perché hanno in mano una consolle e le mamme in fondo sono contente di questo. E poi tutto quel “qui no”, e cioè qui non si entra, qui non si parcheggia, qui non si balla, qui non si beve. In ogni caso è colpa nostra, la amiamo meno la nostra città, è proprio il senso civico che è diverso e le ultime amministrazioni non ci hanno aiutato, anzi…».
Quindi, fine dei giochi?
«No, possiamo ancora farcela. Penso che prima o poi l’istinto di sopravvivenza uscirà, perché noi emiliani siamo un gran popolo. Guarda cos’è successo ultimamente. Gente tra le macerie che sorrideva con le lacrime agli occhi e le maniche tirate su. Mica allungavano le braccia in segno d’aiuto, si davano da fare. Perché noi siamo fatti così».