Gli immobili tolti alla camorra che non possono essere consegnati agli enti locali o riconvertiti sono 478 perché all'interno si trovano persone che non ne hanno titolo, spesso familiari dei boss. E di 367 aziende solo il 2% è già attivo sul mercato
Quando lo Stato è in difficoltà le mafie gongolano. Succede in Campania, dove 478 beni immobili confiscati alla camorra (quasi un terzo dell’intero patrimonio immobiliare sottratto alla criminalità organizzata locale) non possono essere consegnati agli enti locali e riconvertiti a fini di pubblica utilità perché sono gravati da ipoteca o perché sono ancora occupati. Spesso da persone che non ne hanno titolo, spesso dagli stessi familiari dei boss. E delle 367 aziende confiscate, soltanto il 2% è ancora attivo sul mercato: solo 8 di queste impiegano lavoratori, per un totale di 50 persone.
Così non va. Lo dice chiaramente il presidente della commissione Anticamorra del consiglio regionale della Campania, Antonio Amato: “Sono i numeri campani di un sistema che nella nostra regione e in tutt’Italia è in grande affanno e necessita interventi legislativi nazionali e un deciso cambio di passo delle istituzioni locali”. Nei giorni scorsi il report sulla situazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata campana è stato discusso in commissione con il referente napoletano dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati, Gianpaolo Capasso. Ne è uscito fuori un quadro ricco di criticità, tra fondi ai quali è difficile accedere e norme che si attorcigliano. Risultato: ci sono 478 beni sospesi nel limbo, dei quali il 72% è ipotecato e il 42% occupato. I numeri, ovviamente, non si sommano: ci sono immobili che sono ipotecati e occupati contemporaneamente. E sono i più difficili da sbloccare. In commissione Capasso afferma che “si potrebbe ipotizzare di assegnare ai Comuni in maniera provvisoria gli immobili ipotecati”. Per vincere la riottosità delle amministrazioni comunali ad assumersi gli oneri economici legati all’ipoteca. Cosa impossibile coi conti pubblici in sofferenza.
La questione ipoteche è il problema nel problema. Lo spiega bene Lucia Rea, direttore di un consorzio della Provincia di Napoli che si occupa di gestione dei beni confiscati: “Ne esistono di due tipi. Il primo tipo è rappresentato dalle ipoteche legali, collegate a tasse e tributi non pagati dai vecchi proprietari. Nel momento dell’affidamento all’ente locale, questo diventa ‘creditore e debitore’ di se stesso e quindi sarebbe sufficiente una sua rinuncia al credito per poter riassegnare subito il bene. Invece recentemente abbiamo perso 3 milioni di euro di fondi Pon per la sicurezza perché i sindaci di Pomigliano d’Arco e di Villaricca non hanno rinunciato a due crediti di 10mila e 8mila euro su beni confiscati e non assegnati”. “C’è poi il secondo tipo di ipoteca – aggiunge – Quella accesa dai boss per contrarre mutui quando intuiscono che stanno per perdere il bene, con il solo scopo di impedirne un riutilizzo futuro. Possiamo uscirne in un solo modo: destinando una parte del Fug, il fondo unico di giustizia, dove confluiscono le liquidità delle confische, per l’estinzione di queste ipoteche. E’ fattibile, perché è un fondo pieno di soldi, e non si capisce perché non si agisce in questa direzione”.
Del Fug ha parlato Capasso in commissione regionale: “Esiste una procedura di richiesta di questi fondi, ma è così articolata che abbiamo preferito creare una struttura per una gestione di fondi-cuscinetto che permette di tappare eventuali esigenze immediate”. Salvatore Perrotta, l’ex sindaco di Marano, componente del consiglio direttivo di avviso pubblico, avverte: “La questione delle ipoteche è sostanziale, da primo cittadino sono stato costretto a segnalarla più volte all’Agenzia Nazionale come un ostacolo serio alla fruizione dei beni. Urge un loro intervento strutturale, unito all’istituzione di un fondo specifico da parte della Regione o dello Stato, perché le amministrazioni comunali da sole non possono risolvere”.
Un grande buco nero è nelle aziende confiscate. Destinate inesorabilmente al fallimento. Ne spiegò le ragioni il magistrato anticamorra Raffaele Cantone in un’intervista a ilfattoquotidiano.it: “L’impresa criminale vive, ottiene crediti e sta sul mercato per la mafiosità dell’imprenditore e la sua capacità di intimidazione. Quando poi la affidi a un amministratore giudiziario che deve rispettare le regole di mercato, mettere a posto i dipendenti, pagare le tasse, non regge più. Bisogna studiare agevolazioni fiscali e contributive per le imprese sottratte alla criminalità organizzata”. A questo si aggiunge che in Campania non esistono cooperative di lavoratori per la gestione diretta dei beni confiscati attraverso la destinazione per fitto a titolo gratuito. Un modello di business sperimentato con successo altrove. Una recente legge campana prevederebbe premialità per le coop in grado di accedere alla gestione dei beni confiscati. Per ora è solo una speranza. La legge è sostanzialmente inattuata, perché i fondi regionali latitano.
E non è un dettaglio da poco l’ingloriosa fine del patrimonio automobilistico e motociclistico tolto ai camorristi. “Numeri stratosferici” dice Capasso. Nell’ordine delle migliaia. Ma siccome ci vogliono in media sette anni tra il sequestro e la confisca, nel frattempo le macchine marciscono nei depositi giudiziari. I cui proprietari alla fine presentano parcelle per importi di molto superiori al valore del veicolo deteriorato. Ad aggravare il tutto, una tara nella legge che consente di consegnare queste auto solo alle forze dell’ordine e non ai Comuni o alle Province. “Una cosa incomprensibile” commenta Amato. Purtroppo non è l’unica.