Spesso è proprio questione di punti di vista. Non è una grande novità, molti (io no) la pensano sempre così. Ma spesso è utile saper modificare il “punto di vista”: permette di vedere le cose in tre dimensioni, qualche volta di più.
Per esempio, qualche tempo fa stavo a bordo del “Demian Bednij”, grossa nave che potrebbe fare la sua figura anche nel Mediterraneo, ma che non arriverà mai in questo mare nostrum. Forse dovrei dire anche chi era Demian Bednij che, in russo, vuol dire Demian “il povero”. Se gli hanno dedicato una grossa nave vuol dire che, per qualcuno, qualche merito lo avrà avuto. Infatti fu un grande poeta russo, che si chiamava in realtà Yefim Alekseevic Pridvorov, che fu amico di Trozkij e di Stalin, ma anche di Mandelstam, e poi odiato dal partito, ma anche il poeta preferito di Nikita Krushev. Eccetera.
La storia della rivoluzione bolscevica è piena di queste singolarità, ma tutto questo non c’entra niente con la rivelazione della relatività che io ebbi a bordo del “Demian Bednij”.
Camminavo infatti nel lunghissimo corridoio del secondo ponte mentre la nave filava liscia sull’olio dell’acqua, in un silenzio assoluto. A un certo punto si apre uno slargo e si entra in una specie di salotto, arredato con autentiche poltroncine sovietiche, rosse e blu. Dignitose ma un po’ lise. Qualche tavolino, una scacchiera di legno, classica, pronta per essere giocata, regolamentare. Una delle pareti è coperta di bandiere marinare, forse testimonianze di fratellanze acquatiche del tempo che fu. L’altra è invece tutta occupata da una grande, molto grande carta geografica: di quelle su tela cerata, che ancora si vedono in qualche nostro liceo. E’ uno sviluppo su due dimensioni della superficie di un pianeta. Intuisco, ma faccio fatica, al volo, di primo acchito, a capire di quale pianeta si tratti.
Si capisce: nei nostri libri di scuola avevamo al centro, invariabilmente, l’Europa. E sotto, ai suoi piedi, sempre molto sottovalutata dalla schiavitù della proiezione non equivalente, l’immensa Africa. Che fa la figura di uno sgabello, appena sotto il “nostro” Mediterraneo, su cui è poggiata la nostra “universale” grandezza.
In effetti – perché negarlo? – siamo stati grandi in (quasi) tutte le epoche della storia. Solo che qui, a bordo del “Demian Bednij”, c’è questa carta geografica che, con grande improntitudine, ignora la (nostra) geopolitica.
L’Europa c’è, e me ne accorgo a fatica. Ma è a sinistra, un po’ in basso, microscopica: un’appendice insignificante del corpaccione asiatico.
C’è anche l’America, anzi le due Americhe, sulla destra, oscurate le une e le altre dall’immensa distesa azzurro-chiaro dell’Oceano Pacifico.
Al centro c’è la Jakutia, che tutti noi conosciamo per avere giocato a Risiko, e solo per questo motivo. Guardando il cartoncino dei giochi forse pensavamo a qualche errore di dimensione. Invece non era un errore. La Jakutia è una repubblica autonoma della Federazione Russa, grande come tre quarti dell’Unione Europea. Solo che, mentre quest’ultima vanta oggi circa 500 milioni di abitanti, la Jakutia vanta una densità media di abitanti per Km quadro pari a 0,31. Insomma, sono meno di un milione.
Sto dunque navigando in Jakutia, sulle acque del maestoso Lena. Ecco perché la nave fila liscia, senza rullio e beccheggio: perché sui fiumi non ci sono onde. E su questo meno che altrove, perché il Lena è così grande, con una corrente così lenta, che lo fa apparire quasi immobile, tra due rive così lontane da apparire isole in mezzo a uno sterminato lago. Isole verdi di abeti della fittissima taigà, che non ha soluzioni di continuità. Un altro mare, più grande di tutto il Mediterraneo. Non una casa, non un filo di fumo, o un lampione, o un sentiero. Qui non ci sono strade, lungofiume, centri abitati, dacie, ville, né di ricchi, né di poveri.
Qui non c’è nessuno e non c’è mai stato nessuno. E il silenzio assoluto, insieme allo sciabordio della chiglia, si mescola con la sensazione un po’ vertiginosa di andare all’incontrario. Già, non ci siamo con l’orientamento. Questo fiume, tutti i fiumi a nord dell’Himalaya, vanno “verso l’alto”, per cacciarsi nell’Oceano Glaciale Artico. Così, a bordo del “Demian Bednij” i fattori stranianti sono tanti, tutti.
Vivere da queste parti non è facile come lo è da noi. E adesso sta diventando perfino più difficile. Chissà cosa ne sarà della merzlotà (noi la chiamiamo permafrost) con il riscaldamento climatico che arriva. E’ terra permanentemente gelata: fino a centinaia di metri di profondità. Mi hanno detto a Jakutsk, la capitale, che negli ultimi tempi gli aerei e elicotteri che collegano le zone più meridionali di questo sub-continente con quelle nordiche, faticano d’estate a trovare ancora superfici ghiacciate su cui atterrare. Il terreno sgela e c’è rischio di affondare nel fango quanto basta per non poter ripartire. Si formano laghi o acquitrini grandi come qualche Stato europeo. Sotto quella terra eternamente gelata ci sono le ricchezze inestimabili di cui tutto il mondo avrà presto bisogno, avendo bruciato e sprecato le proprie.
Andare a prenderle non sarà facile. Sulla carta del “Demian Bednij” la Cina è ben vicina a questo “centro”, essa stessa si chiama “Paese del Centro”: più vicina di quanto non lo sia perfino Mosca, o Tokio. E da queste parti gli Ivan Ivanovic hanno occhi a mandorla, stretti come lame di coltello. E i nostri “valori universali” qui sembrano assai meno universali di quanto non appaiano a noi, che abitiamo laggiù, in fondo, in quello scampolo di terra a sinistra, in basso.