Dividendi speciali entro la fine del 2012, poi via ai programmi di riacquisto delle proprie azioni. Sono queste le ultime strategie delle grandi società Usa alla vigilia di un nuovo anno pieno di insidie tanto per le stesse corporation quanto per l’amministrazione Obama. Il fiscal cliff, da cui discende il piano di risanamento di bilancio che passa anche per l’aumento della pressione fiscale, resta ancora privo di un’intesa. Ma le grandi società del Paese sembrano già pronte alla guerra. Con un piano di battaglia per minimizzare le tasse che rischia però di provocare un danno collaterale al mercato e alla stessa economia americana.
Il primo segnale, come noto, viene dall’insolita proliferazione di dividendi in corso da qualche mese tra le corporation americane. Nel solo ultimo trimestre 2012, ha riferito la società di consulenza Markit pubblicata dal Financial Times, ben 123 compagnie, contro una precedente media di 31, dovrebbero annunciare dividendi “speciali”. L’obiettivo? Beneficiare ancora una volta della bassa imposizione fiscale (15%) promossa nel 2003 dall’allora presidente George W. Bush. A partire dal 2013, infatti, la tassazione sulla distribuzione degli utili dovrebbe essere corretta al rialzo fino a superare quota 40 per cento. Non stupisce, dunque, che una grande impresa dell’estrazione petrolifera come SeaDrill abbia annunciato dividendi speciali entro la fine dell’anno, né che il colosso della grande distribuzione Walmart abbia scelto di anticiparne la distribuzione da gennaio a dicembre.
Il fatto è che il fiscal cliff (letteralmente “precipizio fiscale”) è comunque inevitabile. L’intesa bipartisan ancora non c’è, ma i numeri impongono comunque l’implementazione automatica delle sue strategie basilari: taglio della spesa e aumento delle tasse. Ovvero un risanamento del bilancio. Gli Usa, ha ricordato in questi giorni un’analisi del quotidiano britannico Guardian, spendono ogni anno 3.600 miliardi di dollari incassandone appena 2.300. Tradotto, uno sbilancio da 1,3 trilioni di biglietti verdi. Per riportare il tutto entro livelli di maggiore sostenibilità occorre tagliare qualcosa come 109 miliardi all’anno nel corso del prossimo decennio. Il problema, non solo americano, è che le politiche di rigore rischiano però di produrre un ulteriore rallentamento dell’economia. Il che, per un Paese che attraversa una ripresa comunque modesta (gli Stati Uniti crescono ad un ritmo inferiore al 2% annuo), rappresenta un pericolo da non sottovalutare.
Le imprese, come detto, si stanno attrezzando. Ma il dilagare dei dividendi speciali rappresenta in realtà una strategia a termine, destinata ad essere rimpiazzata a partire da gennaio da un nuovo piano d’azione: la prevista esplosione del buy back azionario. Che cosa significa? Essenzialmente che le corporation quotate si preparano a comprarsi sul mercato le proprie azioni con l’obiettivo di sostenerne il valore ma anche di sfruttare il trattamento fiscale favorevole che interessa questo genere di operazioni. I profitti da buy back sono attualmente tassati al 15%, non diversamente quindi dal guadagno sui dividendi. Ma mentre l’imposizione su quest’ultimo, come si diceva, dovrebbe salire attorno al 40%, gli aumenti delle tasse sui riacquisti azionari dovrebbero essere decisamente più contenuti con un probabile passaggio dal 15 al 20.
Di recente, ha ricordato in questi giorni il New York Times, piani di buy back sono stati annunciati da grandi imprese come Chipotle, Starbucks, Bebe Stores e Procter & Gamble. Quest’ultima, in particolare, ha reso nota la scelta di aumentare l’accantonamento della liquidità necessaria all’operazione portandola da 4 a 6 miliardi di dollari. L’azienda, contemporaneamente, si prepara a licenziare 5.000 dipendenti. La strategia di Procter & Gamble appare tristemente esemplare. Orientare la propria liquidità verso il buy back significa al tempo stesso sottrarre risorse agli investimenti, ovvero ridurre le attività produttive alimentando la disoccupazione.
Senza contare che il riacquisto delle azioni può produrre un aumento del valore di queste ultime ma nel medio periodo si ha spesso un’inversione di tendenza. “Quando riacquisti le azioni con il denaro che avrebbe potuto essere reinvestito, non produci soltanto rendimenti peggiori ma finisci anche per impiegare meno persone” ha spiegato al New York Times Gregory Milano, l’amministratore delegato di Fortuna Advisors. Come a dire che operazioni simili sono destinate a produrre solo ed esclusivamente effetti recessivi. L’ultima cosa di cui l’economia Usa ha bisogno.