Secondo un'indagine Consob, le società controllate da un azionista senza la maggioranza 96, contro le 66 del 1998. E né la crisi, né le tensioni societarie frenano il moltiplicarsi delle poltrone
Il capitalismo senza capitali fa ancora tendenza a Piazza Affari. A confermarlo è il Rapporto 2012 sulla governance delle società quotate redatto dalla Consob. Nell’analisi degli assetti proprietari dell’autorità di vigilanza sui mercati emerge che più della metà del valore espresso dal listino milanese è controllato da “un singolo azionista che è in grado di esercitare un’influenza dominante sull’assemblea ordinaria” seppure con una quota di azioni inferiore al 50%, oppure da un patto di sindacato. Cioè un accordo tra azionisti di minoranza.
Nel dettaglio, si tratta di 96 società, che hanno un valore pari al 55% della Borsa italiana, contro 125 aziende (con un peso di appena il 25,5% sul valore totale del listino) che hanno come riferimento un solo socio con più della metà del capitale nel proprio portafoglio. Detto in soldoni, infatti, le 96 aziende in questione rappresentano più di 160 miliardi di euro e sono evidentemente le imprese italiane di dimensioni medio-grandi.
Fra queste quelle controllate dallo Stato (Eni, Enel) con quote attorno al 30%, ma anche grandi gruppi privati come Rcs Mediagroup, il cui maggiore socio è l’imprenditore della sanità Giuseppe Rotelli che, con una quota superiore al 16,5%, non ha accesso al patto di governo della società cui aderiscono, tra gli altri, Mediobanca (14,2%), Fiat (10,49%), i Pesenti (7,74%), Pirelli (5,11%) e Intesa (5,06%). Rcs, casa editrice del Corriere della Sera, non è naturalmente un caso isolato. Basti pensare che la famiglia Agnelli controlla la Fiat, attraverso la holding Exor, con il 30,55 per cento. O ancora che i Berlusconi detengono il potere di Mediaset con il 40% del capitale. Anche se il caso più emblematico resta sempre quello di Pirelli, che è controllata da Marco Tronchetti Provera attraverso una catena di scatole e patti di sindacato, non sempre felici, con un investimento effettivo solo sul 6% circa del capitale del gruppo degli pneumatici.
Per non parlare del fatto che società strategiche come Telecom Italia siano controllate da una holding che si chiama Telco, composta dalla spagnola Telefonica e da un pool di banche, che ha appena il 22,45% del capitale. Esempi che evidentemente fanno proseliti dal momento che se nel 1998 le aziende controllate da un socio “influente”, ma non maggioritario, o governate da un patto erano 62, oggi invece, come si rileva Consob, sfiorano il centinaio, mentre restano sostanzialmente stabili le imprese con un solo azionista forte con un capitale sopra il 50% (dalle 122 del 1998 alle 125 attuali).
Segno insomma che se il capitalismo che mette i soldi di tasca propria non si muove di tanto, quello senza capitali, fatto di patti e di influenze avanza sul listino milanese. E del resto una conferma viene anche dalle cronache finanziarie che registrano sempre più numerose battaglie combattute a Piazza Affari a suon di ricorsi e carte bollate. Qualche esempio? La lunga guerra su Impregilo che vede scontrarsi le famiglie Gavio e Salini, entrambe con una quota sotto il 30 per cento, nonché il match in corso fra Vittorio Malacalza e Tronchetti Provera per il controllo della Camfin che a sua volta ha in mano Pirelli. Due episodi che mostrano l’interesse dei finanzieri-imprenditori italiani per l’industria.
Una passione che la Consob stessa evidenzia nel suo report sottolineando che nel segmento industriale prevale il modello di controllo delle società di “fatto e di patto” (51 imprese) contro 20 esempi del settore finanziario e 28 dei servizi. Le tensioni societarie non hanno però impedito il moltiplicarsi delle poltrone: Consob rileva che, rispetto al 2008, il numero medio dei componenti del consiglio nelle società quotate è salito da 9,9 a 10,2. Sono aumentati anche i membri dei consigli di sorveglianza (da 12,4 a 14,3), mentre hanno segnato un lieve calo i componenti del comitato di gestione che scendono a 6,5 da 7,7.
Da segnalare infine che, nonostante la crisi delle banche e delle assicurazioni, anche nel 2012 i consigli di amministrazione del settore finanziario sono i più popolati con una media di 12,4 consiglieri e un picco massimo di 25 componenti. Un dato che si scontra con un più sobrio comparto industriale (9,2 membri è la media con un massimo di 22 persone). Numeri che danno da pensare se confrontati soprattutto con i risultati del comparto finanziario quotato a Piazza Affari.