Nello spoglio dei risultati per le primarie del Pd l’area Centro Nord della Penisola è stata ancora definita, da diversi commentatori di giornali e Tv, quella delle “regioni rosse”.
A proposito dell’Emilia-Romagna, riusciremmo oggi a definirla una regione rossa? Ormai si tratta di un’etichetta impropria. Il Pd che è il partito di riferimento in regione, raccoglie questa attribuzione cromatica con imbarazzo. I rappresentanti della maggioranza legati a Pierluigi Bersani ricordano che bisogna cambiare riferimento, regioni rosse – ci dicono – è un richiamo del passato, ma non sanno offrire nuovi appellativi.
La difficoltà a leggere la realtà si coglie anche dall’incapacità di elaborare nuove definizioni che siano ampiamente accettate dagli osservatori. Definire un territorio, o un’ampia area interregionale, non solo significa trovarne caratteri omogenei, ma vuol dire anche calibrare le risposte politiche adatte.
I precedenti modelli amministrativi alla base delle giunte rosse erano in buona parte incentrati su un’idea di futuro. Nei primi decenni del dopoguerra e almeno fino agli anni Settanta, il governo delle città e delle regioni non era soltanto un atto amministrativo, ma costruiva alleanze sociali, creava modelli alternativi per il governo nazionale sino al punto da determinare forti identità territoriali legate al segno di quelle politiche. Ovviamente erano modelli che hanno scontato anche scelte clientelari – anche allora sotto gli occhi di tutti – e i cittadini che in maggioranza accettavano questo sistema lo facevano convinti che ciò fosse comunque in funzione dell’interesse della collettività. Così, stando ai responsi delle urne, i pregi superavano i difetti soprattutto perché vi era la capacità di fornire servizi creando efficienti modelli regionali di stato sociale: nella scuola, nella sanità, nelle politiche culturali e giovanili. Le infrastrutture, le reti viarie e i trasporti pubblici urbani sono stati invidiati dai visitatori. Dal punto di vista urbanistico quelle amministrazioni hanno risposto alla sfida della grande immigrazione degli anni Sessanta progettando nuovi quartieri (con oasi di verde) e garantendo la casa con politiche di edilizia popolare.
Pur con difficoltà iniziali, le politiche cittadine hanno favorito l’integrazione sociale. Negli anni Settanta e Ottanta il modello emiliano, alla base delle giunte rosse, è stato studiato da sociologi e antropologi stranieri, soprattutto statunitensi. La curiosità intellettuale di partenza si è riversata in un giudizio positivo di quelle esperienze, si vedano su tutti gli studi da David Kertzer. Anche dall’esterno si è rafforzato il mito delle giunte rosse, dove però il rosso, anche allora tendeva formalmente a sfumare. Per quarant’anni, dal 1951, la lista comunista al Comune di Bologna si è chiamata Due Torri e non Pci per favorire adesioni meno ortodosse, nella consapevolezza che il solo proletariato agricolo e operaio faticava a raggiungere la maggioranza senza l’alleanza con altri ceti sociali. Qua si è realizzata l’architettura sociale che è alla base dell’Emilia rossa.
Di questo, oggi resta la memoria: quelle pratiche sociali e quelle politiche sono lontane nel tempo. La società è diversa, così come è differente l’era economica. Eppure il modello è stato così radicato da rimbalzare ancora adesso nelle cronache politiche. L’elettorato ha continuato a cercare elementi di quel modello trasmettendone la memoria a livello familiare e vedendo nel Partito democratico l’erede di quella stagione. E’ però un lascito spogliato di contenuti perché l’esistente viene trascinato, senza più essere immaginato in una declinazione migliore e nel suo sviluppo futuro.
Resisterà il consenso ereditario? Su questo vale la nuova regola nazionale. Se in passato i cittadini chiudevano un occhio di fronte alle clientele, in considerazione di un bene pubblico che si vedeva, adesso che quel bene pubblico si vede sempre meno, le gestioni politiche non trasparenti non sono più perdonate.