«Protesto per una paga migliore: con quello che mi danno non riesco a comprare del cibo per i miei bambini che hanno meno di 6 anni». Sono le parole paradossali di Pamela Waldron al New York Times. Pamela lavora infatti in un Kentucky Fried Chicken della “Grande Mela” da otto anni ma guadagna poco meno di 8 dollari l’ora (5,50 euro) e per questo è in sciopero da giovedì scorso insieme ai suoi colleghi di KFC, McDonald’s, Burger King, Taco Bell, Wendy’s e a molti altri lavoratori delle catene di “fast food” o meglio “junk food” (cibo spazzatura).
È il più grande sciopero della storia americana contro le multinazionali del cibo rapido, che sono diventate icone stesse del “way of life” a stelle e strisce. Per ora sono 200 scioperanti, ma gli organizzatori promettono che è solo l’inizio. I dipendenti puntano a 15 dollari l’ora (circa 10 euro) e «sogniamo un sindacato, uno vero che ci rappresenti». Il movimento segue le proteste che ci sono state recentemente contro la celebre catena Walmart per le stesse ragioni. E ha un nome: Fast Food Forward.
Sul sito, i manifestanti mettono subito in luce le motivazioni della protesta: le multinazionali del “cibo veloce” che guadagnano 200 miliardi di dollari l’anno vogliono abbassare lo stipendio dei propri dipendenti a 7,25 dollari l’ora (quasi meno di 5 euro), ovvero la paga minima permessa nello Stato di New York. I lavoratori che mediamente ricevono 11.000 dollari l’anno (8.400 euro) non ce la fanno ad accettare ulteriori riduzioni. E così si arriva al paradosso che chi vende cibo non riesce neanche a comprarlo per sfamarsi. Anche perché ben pochi dipendenti dei fast food si accontenterebbero di una dieta basata sui menu che servono a lavoro. Certo, perché il cibo junk è per sua stessa definizione tutt’altro che genuino.
Il grande accusato e obiettivo delle proteste contro le catene di fast food ha il viso del simpatico pagliaccio spesso trasfigurato dai critici nel protagonista sanguinario di “It” di Stephen King: McDonald’s. Risale agli anni ’90 uno degli ultimi tentativi della grande multinazionale americana di tacciare le critiche rivolte alla bontà dei propri prodotti: il processo, svolto in un tribunale inglese, si chiamava “McLibel” e chiamava in causa i pesanti rilievi alla McDonald’s scritti e diffusi da due attivisti. I critici furono condannati ma il tribunale confermò la veridicità delle critiche, aprendo di fatto la contestazione globale verso la multinazionale.
Poi è arrivato il documentario Super Size Me di Morgan Spurlock (2004): l’esperimento a cui si sottoponeva il regista stesso era una dieta di 30 giorni a base di McDonald’s menu. Il film si conclude con la rinuncia al tentativo a causa del divieto di continuare, impostogli dai medici. E quindi nel 2010 si sono diffusi su Youtube filmati ed esperimenti per dimostrare come patatine e panini del “Mac” non vadano mai a male, anche dopo mesi: certo non un segno di genuinità. Ma non c’è solo la McDonald’s ad essere sotto accusa per la qualità del cibo che vende ogni giorno in tutto il mondo: basta guardare il film “Fast Food Nation” (tratto dall’omonimo bestseller di Eric Schlosser) per rendersi conto che è l’intero processo produttivo del “junk food” ad essere ben poco virtuoso. Un processo che coinvolge i diritti dei lavoratori, spesso scoraggiati dalle aziende a riunirsi in formazioni sindacali. Ma se perfino a New York i dipendenti dei grandi fast food sono in sciopero, i pagliacci testimonial rischiano di perdere il sorriso a mille denti in luogo dell’iconografica e carnevalesca lacrima.