Roma, Occupazione CinecittàQuando ero piccolo, più o meno tredici anni, decisi che da grande mi sarebbe piaciuto fare il cinema. Per un figlio di un impiegato e di una casalinga, allora si diceva così, sembrava un sogno come un altro, tipo fare il calciatore, lo scrittore o il cantante. Al liceo, appena compiuti diciotto anni, con il mio amico Raffaele andammo a trovare il papà di Carlo, che lavorava a Cinecittà. Volevamo fare le comparse, per guadagnare qualche lira. Non riuscimmo mai a fare nemmeno per un giorno le comparse, ma io mi portai dietro comunque ancora per qualche anno il fascino di quel posto che allora era, o forse sembrava a me, magico. E il sogno a venticinque anni divenne realtà: cominciai a lavorare nel cinema. E per un anno intero frequentai Cinecittà tutti i giorni, lavorando in un lungo documentario realizzato dall’Istituto Luce. Quell’anno mi aiutò a prendere le distanze emotive da Cinecittà, che ho continuato poi a frequentare per più di vent’anni in maniera saltuaria e sicuramente sempre meno affascinata.

Negli ultimi tempi Cinecittà è stato uno dei tanti specchi della profonda crisi di un paese, del suo cinema e dell’atteggiamento delittuoso del potere politico nei confronti dell’uno e dell’altro. A un certo punto è sembrato chiaro che la prospettiva era diventata quella di svuotare quel luogo dalle competenze originarie di creazione, per affittare i lavoratori che sonorizzano, colorano e stampano i film a una multinazionale americana e svendere quelli dei mezzi tecnici a un’azienda privata del settore, con i costruttori delle scenografie di Fellini, dei grandi film americani ma anche dei programmi televisivi e dei grandi fratelli da spedire sulla Pontina a fare parchi a tema e centri commerciali. Con l’obiettivo primario di costruire dentro una parte di Cinecittà alberghi con piscina, ristoranti, beauty farm e palestra, per attirare le produzioni internazionali dicevano, in realtà con l’ottica del palazzinaro, al grido ripetuto che con la cultura (e il cinema) non si mangia.

I lavoratori però non ci sono stati. E hanno iniziato a scioperare. E poi hanno appeso uno striscione all’entrata con su scritto “Cinecittà okkupata”. E hanno continuato a lottare, per alcuni mesi. L’altra notte, un po’ a sorpresa, visti i tempi, è arrivata la notizia che è stato trovato un accordo tra la direzione di Cinecittà, la multinazionale americana, l’azienda privata del settore, il Ministero dei Beni culturali che è azionista di Cinecittà al 20% e le rappresentanze sindacali dei lavoratori. Dall’accordo sembrerebbe che tutti i posti di lavoro saranno garantiti per almeno un anno e che nessun lavoratore verrà licenziato o spostato al di fuori degli stabilimenti.

In un’Italia come quella che viviamo c’è solo da festeggiare. Ogni posto di lavoro salvato è una festa.

Ma, scusatemi, c’è un ma. Ma un comunicato della Cgil che recita così: “fondamentale è l’impegno assunto dal Ministero dei Beni culturali, che ritenendo l’attività cinematografica di Cinecittà e dell’intero settore, di importanza strategica per il rilancio del sistema paese, si adopererà per il mantenimento delle agevolazioni fiscali vigenti e la costituzione di gruppi di lavoro che, con la partecipazione di Regioni ed enti locali, definiscano una strategia di rilancio della produzione audiovisiva” non vi sembra un po’ troppo compromissorio? Non vi sembra un prendere tempo o prendersi in giro?

Ma soprattutto, che vuol dire sistema paese?

Io, quello striscione con su scritto “Cinecittà okkupata” me lo conserverei. Non si sa mai.

(Foto Lapresse)

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