I fatti, però, in Egitto, sono un poco più complessi di come li descrivono e per capirli davvero bisognerebbe rispolverare categorie non più di moda in Occidente, da almeno 30 anni. Piuttosto che di “giovani” – categoria assolutamente indefinita e soprattutto poco utile dal punto di vista analitico, specie se adoperata in un paese dove più della metà della popolazione ha meno di 30 anni – bisognerebbe iniziare a parlare anche di classi sociali e di lavoratori. Perché sì, è vero, verissimo, che gli egiziani scesi in piazza in questi ultimissimi giorni chiedono democrazia, ma il punto vero da capire è che tipo di democrazia stanno chiedendo e – ancora – chi sono quelli che scendono in piazza, a quali classi appartengono? Sono studenti, lavoratori, lavoratori a cottimo, a ore, alla giornata, disoccupati? Cosa rivendicano, al di là degli slogan portati in piazza? Per rispondere a queste domande, bisogna però prima porne un’altra: gli egiziani hanno mai smesso di protestare dal 25 gennaio 2011?
Per chi segue i fatti d’Egitto, la risposta è scontata. Perché sa che le proteste non sono mai terminate. Subito dopo la cacciata di Mubarak esse si sono solo spostate dalle piazze ai luoghi di lavoro. Le ondate di scioperi e di sit-in in Egitto sono, infatti, notevolmente aumentate negli ultimi (quasi) due anni, al punto da paralizzare intere zone del paese o settori industriali per giorni e settimane intere, più e più volte. E non si è trattato soltanto di scioperi che facevano rivendicazioni di tipo economico: l’aumento dei salari, migliori condizioni di lavoro, maggiori diritti e maggiore libertà sindacale. Che piaccia o no agli analisti occidentali questi sono stati scioperi anche politici, in cui gli operai (esemplari a questo proposito i lavoratori dell’industria tessile di Mahalla al-Kubra), rivolgendosi direttamente al presidente Morsi, hanno ricordato a lui e a tutte le forze politiche, Fratelli Musulmani in testa, che la rivoluzione non sarà mai considerata compiuta senza la giustizia sociale. Ecco, proprio questa espressione, questa rivendicazione, sempre presente nelle lotte degli egiziani (lo slogan più urlato nei 18 giorni di piazza Tahrir era: “Pane, Libertà, Giustizia sociale”), viene messa in sottofondo, o addirittura del tutto cancellata da molti (anche rinomati) analisti internazionali. Eppure, gli egiziani, in particolare coloro che appartengono alle classi subalterne, quando chiedono democrazia, nelle piazze o nei luoghi di lavoro, non la intendono mai sganciata dalla giustizia sociale.
Cosa hanno chiesto, infatti, in questi giorni di protesta contro il decreto di Morsi i milioni di lavoratori, organizzati nei sindacati indipendenti (nati soprattutto dopo le sollevazioni del 2011): vogliono una nuova legislazione sul lavoro, la libertà di organizzazione, le libertà sindacali, la riapertura di tutte le fabbriche chiuse, il reintegro di tutti i lavoratori e le lavoratrici licenziati, un salario minimo ed anche uno massimo, stabiliti per legge e legati al tasso d’inflazione, vogliono che il 50% dei membri dell’Assemblea Costituente sia costituito da operai e contadini.
Se non si tiene conto, quindi, di queste rivendicazioni, di queste lotte e di questi scioperi massicci, tutto quello che accade in Egitto sembrerà sempre un susseguirsi inspiegabile di scontri, proteste e violenze (di “giovani”, naturalmente).
(Foto di Ead Gjergji)