Trovare nuovi modi, spazi, strade, per costruire un’alternativa realmente sostenibile è una delle sfide vere, concrete, vive direi, nelle corde degli amministratori locali, stretti oggi più che mai dalla morsa assurda dei tagli e della crisi. Ma è anche l’unico spazio a volte percorribile per interi pezzi di comunità, famiglie e cittadini, che sentono il disagio nei confronti di un sistema allo sbando e che vogliono fare quel primo passo in grado di portarli, in un colpo solo, da un’altra parte.
L’Università del Saper Fare, nata da una sorprendente intuizione positiva di alcuni circoli del Movimento per la Decrescita Felice, è una di queste possibilità. Uno strumento unico per mettere gambe cuori polmoni e tempo a idee concrete, ricette possibili, antidoti a questa malattia dell’iperconsumo che ci vede agonizzare nella nostra quotidianità.
Il principio del saper fare si basa sul recupero di alcune preziose capacità pratiche andate perdute negli ultimi decenni, da quando la società occidentale ha abbracciato il modello di sviluppo consumistico, ad altissimo impatto sull’ambiente, basato sul frenetico consumo di prodotti usa e getta, concepiti per durare il meno possibile ed essere rapidamente sostituiti, trasformandosi così in rifiuti costosi da smaltire, gravati da imballaggi ingombranti e altamente inquinanti.
Il saper fare – si legge nella presentazione e nel Manifesto dell’iniziativa sul sito ufficiale – è una sorta di rivoluzione culturale, che presenta una quantità incalcolabile di vantaggi: permette di recuperare capacità e utilità perdute, di accedere a beni primari limitando acquisti e spostamenti, di inquinare meno e risparmiare molto, e di sperimentare una nuova dimensione entro la quale rivalutare il tempo e la soddisfazione del lavoro ben fatto, da condividere in modo solidale. Zero imballaggi, meno trasporti, niente emissioni. Se migliaia, milioni di singoli adotteranno le pratiche del saper fare, inaugurando nuovi stili di vita basati sul recupero della capacità di auto–produzione di beni e quindi riducendo la produzione di emissioni e rifiuti, l’impatto di questa pratica diverrà in breve tempo molto significativo anche su scala globale.
Recuperare alcune delle antiche capacità perdute e praticarle si può rivelare una sorpresa: il saper fare non è un’attività gravosa ma, al contrario, può essere vissuto con gioia e passione. Il saper fare libera l’individuo da molte delle sue dipendenze, regalandogli la consapevolezza di poter ridiventare autonomo, non più vincolato al supermercato, e anche creativo: le ricette del saper fare sono infinite, così come le sue vastissime applicazioni, sia nel campo dell’auto-produzione di beni che in quello delle riparazioni domestiche.
Saper fare aiuta il portafoglio, dunque, perché mette in gioco risorse ed energie che non passano da uno scambio monetario, ma da un passaggio reciproco di saperi e favori, tempo e auto-aiuto. Saper fare è un modo formidabile per rimettere in circolo le emozioni, la fantasia, per far partecipare dal basso i cittadini, in un formidabile gioco della contaminazione e del contagio positivo.
Saper fare può essere quel virus, virtuoso, in grado di debellare definitivamente la crisi endemica di un sistema allo sfascio: un modello di sviluppo alienante e distruttivo, destabilizzante e corrosivo. Un sistema che emargina chi non possiede o detiene, che sfascia pianeta e risorse e peggiora drammaticamente la qualità della vita delle comunità locali.
Che bello sarebbe veder proliferare in tutti i comuni italiani migliaia di distaccamenti di questa speciale università: in cui docenti e alunni si scambiano in un valzer senza fine ruoli e competenze, favori e possibilità.
Mettendo in soffitta, una volta per tutte, l’economia del dolore e del petrolio. Per informazioni: www.unisf.it.