Scritto nella seconda metà del Settecento, l’atto unico potrebbe essere un pezzo di attualità, ambientato in un qualsiasi ristorante, anziché al Café de la Régence, e questo perché la natura umana, nel suo insieme di vizi e virtù, non è poi così soggetta allo scorrere del tempo.
Parabola grottesca di un musico fallito, nipote del più celebre Jean-Philippe Rameau, che conversa con lo stesso Diderot snocciolando episodi e aneddoti della propria vita. Un cortigiano convinto, amorale per vocazione, che nella sua imbarazzante assenza di prospettive edificanti, nella riduzione della vita a pura funzione fisiologica, riesce in maniera paradossale a ribaltare la visione del bene e del male, del genio e della mediocrità, della natura umana e delle possibilità di redimerla, offrendosi attraverso i secoli come un nitido archetipo di libero servo, innocua foglia di fico per padroni a tolleranza variabile.