Le incertezze strategiche allungano i tempi per una banda più veloce a prezzi più convenienti. Sullo sfondo i giochi politici ed economici che pesano sull'azionariato dell'ex monopolista di Stato
Se qualcuno si attendeva sotto l’albero un calo della bolletta adsl, resterà deluso. L’ennesimo temporeggiamento di Telecom Italia, allontana dall’orizzonte ogni consistente prospettiva di ribasso benché i prezzi all’utenza finale siano quasi il doppio di quelli che ci sono in Francia, Paese che rappresenta un riferimento europeo per lo sviluppo della banda larga. Per quali ragioni? Innanzitutto perché l’ultimo miglio, che appartiene a Telecom Italia, ha un costo d’accesso per gli operatori alternativi più elevato di quanto non accada in casa dei cugini francesi (siamo a 9,28 euro contro gli 8,80 di Parigi per ogni linea) con un maggior vantaggio per l’ex monopolista rispetto ai nuovi rivali. E poi perché la rete, quella in rame, privatizzata da Romano Prodi nel 1997, per Telecom Italia rappresenta un vantaggio competitivo dato che permette alla società di restare interlocutore unico per la migrazione delle utenze verso altri operatori.
Per questo l’obiettivo ultimo del presidente di Telecom, Franco Bernabé, sembra quello di prendere tempo e mantenere il più a lungo possibile lo status quo, in attesa che la fibra con velocità a 100 megabit nelle principali trenta città italiane venga sviluppata con 4,5 miliardi di investimenti dallo Stato, ovvero dalla Cassa depositi e Prestiti del Tesoro, assieme al fondo F2i di Vito Gamberale. Lo stesso che proprio in questi giorni nell’ambito delle battaglie per gli aeroporti del nord, sta contribuendo a mandare a gambe all’aria enti locali importanti come Torino e Milano cui fanno capo asset strategici come società energetiche e infrastrutture.
E quattro miliardi e mezzo sono una cifra importante, che è pari quasi alla metà del valore di mercato dell’intera Telecom, indebitata per una trentina di miliardi. Per l’ex monopolista, che ha appena lanciato la nuova offerta di fibra ottica a Torino, Roma e Napoli, meglio dunque andare con i piedi di piombo lasciando i più grossi investimenti in fibra a Metroweb, il veicolo in mano a Cdp e alla sua partecipata F2i, e spuntare un vantaggioso accordo con lo Stato per tutte le aree in cui è presente solo la sua rete in rame. Senza però esprimersi in maniera definitiva sull’idea di una nuova società con la Cassa depositi e prestiti per l’accesso alla rete. Ma se le cose industrialmente stanno in questi termini perché allora Bernabé ha ritenuto opportuno considerare seriamente l’ipotesi di cessione della rete e della tv La7?
La verità è che lo scenario non si può realmente comprendere se non si tengono in debito conto variabili politiche ed economiche. Compreso il colpo di coda di oggi di Silvio Berlusconi che mettendo a repentaglio il governo Monti apre nuove ipotesi. Ma andiamo per gradi. Quando Bernabé apre alla vendita della rete e di La7, il potere politico era già passato nelle mani di Mario Monti, dopo che l’ex premier sconfitto dai mercati che stavano fustigando anche le sue aziende, Mediaset in testa, era salito al Colle. E’ in questo contesto che matura l’idea della separazione della rete e del ruolo strategico della Cdp nello sviluppo del network a banda larga del Paese all’interno dell’Agenda digitale europea.
Non a caso il 15 marzo 2012 il governo di Monti, a quattro mesi dalla nomina, si affretta a sfornare il decreto legge n°21 (convertito in legge l’11 maggio 2012 n°56) con il quale attribuisce “al Presidente del Consiglio dei Ministri il compito di individuare le reti e gli impianti, i beni e i rapporti di rilevanza strategica per il settore dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni e un potere di veto avverso qualsiasi delibera, atto o operazione, adottata a una società che detiene uno o più degli attivi individuati”. Una sorta di Golden share per i settori strategici del Paese con l’ultima parola al governo.
Ma intanto, trascorsa l’estate di fuoco dello spread alle stelle, lo scenario politico cambia e ci si trova già nel mezzo di una campagna elettorale che invita a preservare gli equilibri. Per Telecom questo si traduce in nuovi condizionali sia sulla vendita della rete che di La7. Deve quindi essere stata provvidenziale la pausa di riflessione arrivata in conseguenza dello spuntare sulla scena di nuovi potenziali investitori come Naguib Sawiris , l’ex patron di Wind che con una mano ha messo sul piatto 3 miliardi di euro, con l’altra si è detto contrario alla vendita della rete. Anche perché non mancano i sostenitori del fatto che sia meglio evitare la cessione della rete e potenziare, invece, Open Access, la funzione interna a Telecom per gestire tutte le attività di sviluppo e manutenzione delle infrastrutture tecnologiche della rete di accesso per tutti gli operatori. Senza mai un no definitivo alla Cdp per una newco per l’accesso alla rete come del resto appena annunciato.
Sull’altro fronte, però, ci sono le banche, che fanno parte, assieme agli spagnoli di Telefonica, di Telco, la holding che con una partecipazione del 22,447%, controlla Telecom. Intesa e Mediobanca, oltre che Generali, tutte socie in Telco, magari avrebbero gradito il cambio con un nuovo socio in alternativa a una valutazione interessante della rete da parte della Cassa Depositi e Prestiti e/o del fondo di Gamberale che, però non sembrano disponibili a farsi tirare per la giacchetta. Naturale, quindi, che l’offerta egiziana sia inizialmente sembrata una manna dal cielo, che però è sfumata nel momento in cui Sawiris ha fatto sapere chiaramente che non intendeva pagare 1,5 euro per azione ciò che sul mercato vale la metà. Un vero problema per le banche che negli anni hanno visto consumarsi e ridursi a un lumicino il valore della partecipazione in Telecom. Ma soprattutto un problema per il cittadino comune e per le piccole e medie imprese che continuano a pagare il prezzo più alto di tutti: quello del ritardo nello sviluppo della rete veloce e dell’alto costo in bolletta.