Roberta Fusacchia è Youth Officer della Croce Rossa Italiana. Si è avvicinata al volontariato a 14 anni, poi ha studiato Diritto internazionale umanitario. Per lavoro ha viaggiato in Nord Africa, Balcani e sud Europa. "Quello che preferisco è stare in prima linea, per capire i bisogni delle persone. Come ho fatto in Nicaragua"
Roberta Fusacchia, classe 1985, dopo un’esperienza in prima linea in Nicaragua come delegata della Croce Rossa Italiana, ci racconta come è riuscita ad affrontare le difficoltà di un paese ancora in via di sviluppo e ci spiega perché, soprattutto nelle nuove generazioni, va promossa la cultura dell’aiuto verso il prossimo. È una santa? Assolutamente no. È solo che aiutare gli altri “dà una carica indescrivibile”.
Roberta, sei stata la più giovane delegata della Croce Rossa Italiana. Qual è stato il tuo percorso?
Ho iniziato come volontaria a 14 anni perché sentivo il bisogno di essere d’aiuto. Non sono mi sento migliore degli altri, per carità, ma volevo essere utile a qualcuno. Sono approdata in Croce Rossa quasi per caso, ma da lì è iniziato quello che io chiamo “il mio più grande amore”. All’inizio ho fatto attività di volontariato con dei ragazzi disabili, poi con i bambini ospiti del reparto pediatrico dell’Umberto I. Quindi, una volta imparate le tecniche di primo soccorso, sono andata nelle scuole e nelle aziende per insegnarle a studenti e professionisti.
Prova a spiegare a una quindicenne di oggi perché dovrebbe preferire il volontariato a facebook e discoteche.
Ragazzi, provate: non c’è niente che appaga di più. È una sensazione unica che non si può spiegare a parole e vi assicuro che si riceve quanto e più di quello che si dà. Ovviamente mi sento di consigliare a tutti di avvicinarsi alla Croce Rossa Italiana, d’altra parte però, è anche vero che per aiutare gli altri non è necessario andare molto lontano: tutti abbiamo un vicino di casa che ha bisogno di essere accompagnato a fare una visita medica o un’anziana zia che vive sola e vorrebbe un po’ di compagnia. È importante, secondo me, promuovere tra le nuove generazioni la cultura dell’aiuto verso il prossimo, a prescindere dal far parte o meno di un’associazione di volontariato.
La tua, dunque, è sempre stata una passione fin da quando eri bambina. Passione che poi è diventata il tuo lavoro.
Sì, in pochissimi anni quella che era un’attività di “semplice volontariato” si è intrecciata totalmente con la mia vita. Il percorso iniziato in Croce Rossa da adolescente ha condizionato i miei studi. Mi sono appassionata al Diritto internazionale umanitario, quindi mi sono iscritta alla facoltà di Scienze politiche, con un indirizzo specifico in cooperazione e sviluppo. Poi, lo ammetto, ho avuto un colpo di fortuna: fresca di laurea, la Croce Rossa cercava una Youth Officer che si occupasse di sviluppo della gioventù presso il Centro per la cooperazione nel Mediterraneo, con sede a Barcellona. Et voilà. Sono volata in Spagna, dove per due anni mi sono occupata di formazione e dell’organizzazione di seminari e meeting informativi. Ho viaggiato tra il Nord Africa, i Balcani e il sud Europa, sensibilizzando i giovani volontari delle Società Nazionali del Mediterraneo su tutte quelle tematiche specifiche che negli ultimi anni hanno coinvolto i paesi della zona, come i cambiamenti climatici, l’immigrazione e la formazione professionale.
Tutto questo per formare una nuova “classe dirigente” targata Croce Rossa?
Sì, per fare in modo che i giovani possano essere sempre formati e informati su quelle che sono le nuove sfide del mondo di oggi.
Da Barcellona al Nicaragua. Com’è successo?
Ero a Barcellona da quasi due anni. Nel frattempo il terremoto ad Haiti del 2010 aveva impegnato molto personale e la delegazione della Croce Rossa Italiana in Nicaragua era rimasta “scoperta” così mi è stato proposto di andare a coordinare i progetti della delegazione di Managua. La Croce Rossa Italiana nel Centro America è arrivata nel 1998, quando l’intera zona venne fortemente colpita dall’uragano Mitch. Passata la prima fase emergenziale, la Cri ha deciso di rimanere in Nicaragua– uno degli stati più poveri dell’America Latina, dove oltre il 70% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno – per realizzare alcuni progetti di sviluppo. In questi 14 anni, in partnership con la Croce Rossa nicaraguense, la Cri ha realizzato grandi campagne di sensibilizzazione sulla prevenzione di alcune malattie molto diffuse (prime tra tutte Aids e Hiv), si è occupata della costruzione di strutture pubbliche. Io, nel corso della mia permanenza, ho seguito la costruzione di una mensa all’interno di una scuola. In partnership con la “consorella” olandese e quella spagnola (le ‘consorelle’ sono le altre Società Nazionali di Croce Rossa e Mezza Luna Rossa, ndr) abbiamo vinto un bando della Dg Echo, dell’Unione europea, per preparare la popolazione ai disastri; siamo andati nelle scuole e nelle comunità a riscrivere (e a volte a creare) i percorsi di evacuazione in caso di calamità naturali e a insegnare loro tecniche di primo soccorso e di evacuazione rapida e sicura in caso di calamità naturali.
Infine, il progetto più importante è stato senza dubbio quello di Water&Sanitation, una sorta di educazione all’igiene. Con i fondi a disposizione abbiamo realizzato nell’isola di Ometepe 500 latrine per la popolazione. Le case di questa isoletta, al centro del Lago Nicaragua, sono fatte spesso di materiali di fortuna, come lamiere e legno, i servizi igienici erano praticamente inesistenti. Oltre a predisporne la costruzione, quindi, abbiamo insegnato alla popolazione come utilizzarle e come mantenerle pulite, dando le prime fondamentali regole di igiene personale e ambientale.
Quindi hai fatto due esperienze molto diverse, una più incentrata sulla formazione a Barcellona, l’altra in “prima linea” in Nicaragua. Quale preferisci?
Preferisco stare in prima linea: il Nicaragua, senza dubbio, è stata una bella palestra.
Quali sono le difficoltà che hai incontrato?
L’inizio non è stato facile, ha richiesto una carica di lavoro in più perché sono stata proiettata in una realtà completamente diversa rispetto a quella che ero abituata a conoscere. Ho dovuto smettere i miei panni e calarmi nella mentalità degli abitanti, cercare di capire come approcciare con loro anche perché non potevo imporre il mio modo di lavorare e di vivere: bisogna sempre adattarsi rispettando il paese che ospita.
Qual è l’aspetto del tuo lavoro che ti piace di più e quale quello che ti piace meno?
L’aspetto che mi piace meno è quello burocratico, la parte amministrativa, per esempio, è necessaria…ma che noia! Quello che preferisco, invece, è stare sul campo, a contatto con la gente, ascoltarne i bisogni e i problemi. Anche perché il fulcro di un progetto è proprio questo: ascoltare gli altri per capirne necessità ed esigenze. Esattamente quello che dovrebbe fare la classe politica.
Hai mai pensato di “scendere in campo”?
No! Anche in Croce Rossa esistono delle cariche “più politiche”, ci sono gli ispettori di gruppo, i presidenti provinciali, regionali, nazionali… ma in tanti anni non mi sono mai candidata per nessuna carica e a nessun livello. Mi sento decisamente più una tecnica.
Progetti futuri?
Per ora farò base qui in Italia, a casa mia per un po’. In questo momento sto tenendo dei corsi di formazione per i nuovi volontari che vogliono entrare in questo piccolo grande movimento.
Continuerai a viaggiare?
E’ quello che più amo fare.
E come riesci a conciliare la carriera con il tuo essere donna?
All’inizio non è stato semplice, soprattutto con la mia famiglia. Sono la seconda di due sorelle e i miei genitori non hanno preso bene il fatto che “la piccola di casa” partisse per tornare chissà quando. Oggi mi capiscono di più: mi vedono felice e anche se ancora con un po’ di fatica, sono più sereni.