Le due signore siedono nella saletta d’attesa al terzo piano del Padiglione D. Chirurgia oncologica. Terapia del dolore. Day hospital. Le due signore sono infuriate. Parlano agitando le mani, stringono i giacconi imbottiti che scivolano a ogni gamba scavallata: fuori fa freddissimo, dentro l’ospedale la rabbia ribolle. “Questi so’ pazzi, vojono chiude’ tutto e buttacce pe’ strada: maledetti loro co’ tutti i soldi che se so’ fregati!” dice la signora più arrabbiata mentre infila nella borsa il plico degli esami vecchi. “Mi’ marito se sta a curà qua, mo’ che famo, annamo a chiede’ in giro chi se lo pija a fa’ la chemio?”. L’altra ricambia, nervosa. Dice che la cugina di Viterbo le ha insegnato di venire al San Filippo per fare la mammografia: “Arrivi col trenino, è pure comodo. Te fanno l’esame, te operano, te fanno la radioterapia già sul lettino. E pure la ricostruzione te fanno subito, e c’è lo psicologo. Ma se rendono conto de come lavorano bene questi qua? E li vogliono chiude’? Ma io je dò foco se me passa davanti un politico, je dò foco!”.
Il San Filippo Neri, ospedale d’eccellenza nella sanità romana, è sotto attacco. La gente viene da tutto il Lazio per curarsi: è meglio della clinica privata, dicono le signore, tutti gentili e dottori bravissimi. Ma nelle mappe del commissario Enrico Bondi c’è una croce disegnata qui sopra. In zona stazionano troppe strutture: giganti come il Gemelli, il San Pietro Fatebenefratelli col Cristo Re, il Sant’Andrea. Troppa densità di postiletto, bisogna tagliare.
“La parola esatta nel documento che ci hanno consegnato era ‘disattivazione’ – spiega il primario di Oncologia, Giovanni Battista Grassi –. Nel quadrante Nord siamo già tanti, e allora noi dobbiamo chiudere: noi, l’unico ospedale pubblico. Peccato che abbiamo un centro di cardiochirurgia ai più alti standard internazionali, una tradizione di gastroenterologia già storica, la neurochirurgia di assoluto prestigio”. Interruzione, un medico s’intromette e spiega che il paziente appena operato è stabile, drena bene, tutto ok. “Vede, questo collega qua è in straordinario non pagato. Lo fanno tutti: infermieri, medici, dirigenti. Per garantire la qualità abbiamo già tagliato tutto il superfluo. Qualche sforzo ulteriore si può fare, ma io voglio sapere questo: quanto costa un intervento per cancro al fegato al Gemelli? Quanto un colon? Un polmone? Facciamo il confronto, ottimizziamo dove si spreca, decidiamo secondo razionalità, non con l’accetta”.
Il corridoio è lungo, un paziente porta a spasso la sua flebo, fa un cenno al professore. Come va? “Insomma, dottò” dice lui guardando fuori, verso il piazzale dove il personale ha manifestato ieri mattina. Tutti in cima alla scala col megafono, per dire a turno che il San Filippo non si chiude. C’è anche Nicola Mangialardi, chirurgo vascolare che s’è inventato una tecnica per intervenire sulle vene senza tagli e squarci. É famoso per quello in tutto il mondo, ma lui se la prende con la politica locale: “La salute è un diritto fondamentale cui dare prospettive concrete – dice il chirurgo –. Perché mai il San Filippo dovrebbe chiudere? Perché dei nostri 530 posti letto dobbiamo perderne 170? Chi lo dice che costiamo troppo? Bondi e i tecnici facciamo bene i conti, ci propongano una soluzione equa e noi per primi li aiuteremo a contenere la spesa. Senza abbandonare i pazienti, però, perché noi siamo il servizio pubblico”.
Al piano interrato non c’è nessuno. Corridoi lindi, pavimenti lustri. “É tutto nuovo qua” spiega il primario di Radioterapia, Maria Alessandra Mirri, mentre s’affaccia al macchinario che serve a colpire il cancro al millimetro. É un bestione enorme, costa 2 milioni di euro. “Ci è appena arrivato il permesso di utilizzarlo e ci dicono di chiudere – sorride lei –. Abbiamo lavorato anni per creare una struttura efficiente. Ho dato il meglio di me. Non me lo farò portare via”.