Un deja vù. All’indomani del nuovo ed ennesimo delitto di mafia, stavolta nel cortile di un asilo, il ministro dell’Interno Cancellieri va a Scampia/Napoli e promette “esercito e più forze dell’ordine”. Bene, ci sono stati tanti suoi ex colleghi che non hanno nemmeno sentito il bisogno di fare quel semplice gesto di presenza. Ma non basterà e tocca non accontentarsi più del bel gesto. Certo, se Cancellieri non fosse andata staremmo qui a chiedergliene ragione. E tuttavia non è mai bastato che – dalle stragi degli anni ’80 a Capaci – lo Stato faccia vedere che esiste e si muova quando – ora è la volta di Scampia – la gente per paura non manda neanche più i propri bambini a scuola. Una cosa terribile, non solo l’omicidio ma molto di più quelle aule deserte.
Io non so quanti di coloro che leggono abbiano mai avuto la ventura di andare a Scampia. O al Cep o alle Zen di Palermo. Oppure a Librino o Monte Po a Catania.
Ma sono certo che lo Stato debba essere a Scampia (e nei quartieri dimenticati del sud) molto più presente, quotidianamente e in modo diverso. Insieme a Cancellieri – questa sarebbe la svolta politica – ci sarebbero dovuti andare anche il ministro Profumo e il ministro Grilli.
Certo c’è la crisi di governo o lo spread risale. Ma a Scampia Profumo avrebbe potuto promettere “più scuola e meno mafia” o se preferite “più educatori e meno camorristi”. Del resto, nel Ministero dell’Istruzione già esiste una direzione che si chiama proprio così “più scuola e meno mafia” e nel governo tecnico c’è perfino un bravo sottosegretario come Rossi Doria che ha lavorato per decenni come “maestro di strada” a Napoli.
Se poi Grilli avesse avuto voglia di farsi un giro, anche lui avrebbe avuto l’imbarazzo della scelta per dire qualcosa di concretamente anti mafioso. Che ne so? “Più lotta al riciclaggio che investimenti sbagliati” oppure “più fondi alla scuola in questo sud e tagli agli armamenti”.
Questa storia degli eserciti agli angoli di quartieri come questi, ha dato frutti solo per alcuni giorni, ma non cambia le cose. Quando “arrivano i nostri”, qui non hanno mai il volto di una garitta e un moschetto. Certo che ci vuole più polizia e magari anche qualche finanziere in più specializzato a capire dove la ricchezza mafiosa si annidi lì (anche se sappiamo tutti che le mafie non investono più a Scampia ma molto piú a nord).
Tra le centinaia di storie che ricordo in venticinque anni di giri da cronista nel sud, ho ripensato a questa dopo il ritorno dell’emergenza Scampia.
Monte Po, Catania, 1984. Un luogo esattamente eguale a Scampia. Scuola elementare e media. Abbandono scolastico a livelli della disoccupazione giovanile, 50 per cento. Un bravo preside e una straordinaria maestra.
Tema in classe: “Disegnate la vostra scuola e il vostro quartiere”. La metà dei ragazzini disegnarono la stessa cosa: un fortino assediato, proprio come quelli del far west, con indiani intorno e soldati dentro. Entrambi che sparano. Nessuno disegnò un albero o una casetta. Gli unici colori erano quelli degli spari.
Qualche giorno dopo, la prof e il preside annunciarono che un magistrato (si chiamava Scidà e faceva il presidente del tribunale minorile) sarebbe venuto a fare una lezione per parlare di mafia in quel quartiere e per commentare con i ragazzini quei loro disegni.
Il giorno prima di quella lezione del giudice, alcuni ragazzetti “fuori corso” si presentarono in aula saltando dalla finestra. Uno mise i piedi sul banco e stette lì in silenzio per tutta la lezione. Chiese solo: “lo sbirro quando arriva?”. E il giorno dopo quella bravata tornò ad evadere l’obbligo scolastico. In un quartiere dove non c’è nulla se non la mafia e la scuola. Ora, quasi trent’anni dopo, Monte Po (come Scampia) è ancora così (dopo ben due operazioni “vespri siciliani”). Dentro la scuola, fuori il far west.