I dettagli non sono ancora noti, ma le conclusioni, rivelate in esclusiva dal New York Times bastano e avanzano per riaccendere il dibattito su uno degli aspetti più discussi delle transazioni finanziarie. Il high frequency trading, il sistema di scambio ad alta velocità basato sui modelli algoritmici e responsabile ormai della maggioranza delle operazioni di borsa, non si limita a garantire significativi profitti ai suoi protagonisti. Ma finisce, al tempo stesso, per produrre un danno sistemico scaricato in primo luogo sulle spalle dei trader tradizionali e dei piccoli operatori. Lo sostiene un rapporto a cura del capo economista della Commodities and Futures Trading Commission (Cftc) degli Stati Uniti Andrei Kirilenko i cui contenuti sono stati anticipati nei giorni scorsi.
L’analisi di Kirilenko e dei suoi collaboratori (docenti di Princeton e dell’Università di Washington) si concentra sui futures, i contratti derivati che garantiscono l’acquisto differito di un prodotto ad un prezzo predeterminato, costruiti sullo Standard & Poor’s 500, uno dei principali indici di riferimento della borsa. In pratica, lo strumento più diffuso per scommettere sull’andamento complessivo dei mercati. Ebbene, secondo i dati raccolti, gli operatori ad alta velocità otterrebbero mediamente un guadagno compreso tra i 3,5 e i 5 dollari su ogni singolo contratto scambiato con i piccoli investitori. Il che, considerando le migliaia di operazioni effettuate nello spazio di pochi secondi (o anche frazioni di secondo), si traduce in un guadagno medio giornaliero che per un solo operatore particolarmente “aggressivo” può superare i 45 mila dollari. Un risultato che, moltiplicato per l’attività di tutti gli operatori attivi sul mercato americano, produce profitti annuali nell’ordine di grandezza dei miliardi. Di per sé, almeno in apparenza, non sarebbe un grave problema. Se non fosse che gli scambi di borsa, nota Kirilenko, tendono a identificare un gioco a somma zero nel quale, per definizione, i profitti di qualcuno si traducono nelle corrispondenti perdite di qualcun altro. E allora la questione si complica.
Secondo il rapporto, insomma, a non trovare fondamento sarebbe il vecchio adagio secondo il quale gli scambi ad alta velocità sarebbero in grado di produrre vantaggi complessivi al sistema facendo aumentare la liquidità a beneficio di tutti. Al contrario i profitti degli operatori high speed rappresenterebbero la misura del loro danno all’insieme dei piccoli investitori e, al tempo stesso, sarebbero il risultato di un’insieme di discutibili vantaggi competitivi. Da un lato c’è il dubbio sulla logica stessa di un sistema che consente di piazzare migliaia di ordini al secondo per determinare e sfruttare minime variazioni marginali di prezzo che sfuggono al controllo dei regolatori e sulle quali gli operatori tradizionali (privi degli strumenti di calcolo e trading algoritmico) non possono guadagnare un centesimo. Dall’altra, verrebbe da aggiungere, c’è l’irrisolto problema della disponibilità informativa, alla base di un importante precedente legale.
A settembre, la Sec (Securities and Exchange Commission) ha inflitto 5 milioni di dollari di multa al gruppo borsistico Nyse Euronext, accusato di aver inviato informazioni di mercato ai trader high frequency prima che queste ultime fossero rese pubbliche agli altri operatori, attraverso due sistemi di trasmissione dei noti come Open Book Ultra e Pdp Quotes. Negli ultimi anni i profitti da high frequency trading in America sono diminuiti notevolmente (dai 5 miliardi del 2009 ai 2 scarsi del 2011, e quest’anno non si dovrebbe andare oltre gli 1,25 secondo le previsioni della società di intermediazione Rosenblatt Securities) ma l’incidenza di queste operazioni resta significativa (il 51% del volume di scambio a Wall Street). Secondo Kirilenko, la prevalenza del trading veloce e la sua capacità di erodere profitti ai piccoli operatori potrebbe spingere questi ultimi verso i mercati meno regolamentati. I suoi avvertimenti, in ogni caso, sono ancora accolti con freddezza. La Cftc, ha ricordato il New York Times, non ha commentato pubblicamente i risultati della ricerca e non ha voluto fornire un sostegno ufficiale alle sue conclusioni.