Il decreto sui costi della politica appena trasformato in legge è un’insalata di provvedimenti contraddittoria. Il decreto da un lato propone misure “anti-casta”, finalizzate a colpire gruppi e Consigli regionali spreconi, e dall’altra fa proprio l’opposto, andando in soccorso di Comuni (e amministratori) sull’orlo del fallimento o già falliti. La contraddizione si spiega in buona parte come l’esito di pressioni diverse: le misure contro gli sperperi regionali sono una risposta obbligata all’opinione pubblica, dopo gli scandali recenti (Polverini docet), mentre gli interventi a favore dei Comuni in rosso scaturiscono dalle grida d’aiuto provenienti dai territori e dall’Associazione nazionale dei comuni (Anci).
Ma per comprendere il perché della mano tesa dal governo ai Comuni falliti e ai loro amministratori occorre svolgere anche altre considerazioni.
Da poco più di un anno è tornato alla ribalta il fenomeno del dissesto – la “bancarotta” dei Comuni – che si verifica quando un Comune, non riuscendo a riscuotere quanto (ottimisticamente?) previsto nei suoi bilanci, non ha soldi per fare fronte ai principali impegni che ha assunto, dagli stipendi alle forniture essenziali, agli interessi sul debito. Dal 2001 si parlava poco di questo fenomeno, perché da quell’anno i costi del dissesto non ricadevano più sullo Stato (come avveniva precedentemente, attraverso un mutuo) ma sullo stesso Comune dissestato. Da allora, gli amministratori locali oltre ad avere lo smacco del commissariamento (che segue sempre il dissesto) dovevano anche trovare le risorse per saldare i debiti, tagliando la spesa e aumentando tasse e tariffe. E così gli amministratori locali divennero spesso disponibili a “fare carte false” per evitare il dissesto. Oggi le cose sono cambiate perché i guai dei bilanci comunali sono divenuti tanto gravi da sfuggire al controllo. E i dissesti si moltiplicano a vista d’occhio, coinvolgendo numerosi piccoli centri ma anche città come Alessandria e Caserta, con la Corte dei Conti che minaccia di fare scattare il dissesto in realtà come Ancona, Reggio Calabria e Messina; e tanti altri Comuni che sono al collasso, come Napoli, Foggia, Palermo, Catania, Rieti e Parma. La realtà è che la finanza comunale nel suo insieme è malata. Un po’ tutti i Comuni registrano, infatti, un cumulo di squilibri rilevantissimi tra le entrate stimate nei bilanci e ciò che effettivamente riscuotono, rendendo le situazioni di disavanzo – più o meno conclamate – estremamente diffuse. Basti pensare che, come precisa la Corte dei Conti, nelle casse comunali mancano all’appello oltre 45 miliardi di euro. Questi soldi risultano tra i residui attivi dei Comuni (in sostanza, i crediti che essi vanterebbero) ma non si riesce concretamente a riscuoterli. Insomma: crediti come carta straccia.
Tanto per cambiare, le conseguenze più gravi di tutto ciò le pagano i cittadini e le imprese, perché quando viene meno la solidità finanziaria dei Comuni inevitabilmente peggiorano i servizi pubblici locali, aumentano tasse e tariffe, i ritardi dei pagamenti diventano insopportabili. Si potrebbe concludere, a ben ragione, che – accanto a un manipolo di buoni sindaci e assessori – nel nostro Paese c’è una classe di amministratori bancarottieri, di ieri e di oggi, che prospera all’ombra delle clientele e porta gravissime responsabilità. E bene avrebbe fatto il governo a rafforzare i controlli e lasciare questi amministratori ai guai giudiziari e alla rabbia dei cittadini.
Ma il fatto è che alle responsabilità locali si aggiungono quelle delle politiche di austerità. Ormai è chiaro che queste politiche hanno frenato l’economia e questo è accaduto anche per il modo in cui hanno investito gli enti locali. I tagli ai Comuni sono stati drastici, spesso effettuati senza alcuna logica e accompagnati dai vincoli sempre più asfissianti del Patto di Stabilità Interno. Basti ricordare che le misure adottate dai governi Berlusconi e Monti hanno imposto per il triennio 2012-2014 una riduzione dei trasferimenti ai Comuni pari a oltre 16 miliardi di euro e maggiori vincoli del Patto di Stabilità per oltre 12 miliardi. L’impatto di queste manovre sugli equilibri finanziari dei Comuni e sulla loro capacità di offrire servizi adeguati ai cittadini e alle imprese è spesso drammatico.
Insomma, l’austerità ha finito per dare un colpo mortale a una finanza locale già malata. E forse anche la crescente consapevolezza di questa responsabilità all’interno della stessa maggioranza trasversale che nell’ultimo anno ha sostenuto Monti, ha spinto a porgere una mano ai Comuni in bancarotta. Una mano però che appare molto debole e che – a meno di un cambiamento radicale della politica economica nazionale e politiche preventive contro il dissesto – in molti casi non servirà che a prolungare l’agonia di alcune amministrazioni locali. Intanto, il conto per i cittadini si fa sempre più insopportabilmente lungo e salato.