Proprio per il declino dell’atomo nello scenario energetico futuro – di cui è un segnale il divorzio di questi giorni tra Enel e Edf per l’impianto di Flamanville – si apre una fase in cui la dismissione degli impianti nucleari assume importanza cruciale per la sicurezza.
Sono innumerevoli i reattori ormai al limite di longevità prevista, e di conseguenza, sono sempre maggiori le quantità di combustibile, scorie e infrastrutture da decontaminare e ritrattare in sede locale e nelle sedi convenzionate a livello internazionale. Si tratta di operazioni costosissime, che spesso non avvengono in trasparenza, che sono coperte da accordi internazionali semisegreti, da trasporti scortati dai militari, da creazione di depositi temporanei fuori norma ma comunque inaccessibili a controlli pubblici. Parliamo di un problema che riguarda l’intera filiera mondiale, ma che assume contorni di massimo allarme per il nucleare italiano. Qui riparto da un articolo apparso recentemente su questo giornale online per allargare possibilmente l’attenzione e il dibattito sul caso Sogin.
La Sogin, società di Stato partecipata al 100% dal Ministero del Tesoro, incaricata della realizzazione del deposito nazionale definitivo dei rifiuti radioattivi e di smantellare gli impianti nucleari dismessi, ha finora svolto attività riconducibili alla realizzazione-ristrutturazione di alcuni depositi temporanei di rifiuti radioattivi e alla demolizione di vecchi fabbricati. Le dimensioni finanziarie complessive racchiuse nella sua “missione” vanno da 3 a 5 miliardi di euro: quindi si tratta di un’opera pubblica di dimensioni consistenti.
Un’opera che ha attirato interessi non sempre limpidi, che ha consentito una gestione assai più privata che pubblica e che ha avuto nei governi Berlusconi sostenitori molto attivi, a partire da An, che ha utilizzato la Sogin come agenzia di collocamento, e dalle spese dell’ex generale Carlo Jean, impegnato in Russia in azioni di supporto allo smantellamento dei sommergibili nucleari ex sovietici. Addirittura, nelle more del lancio del faraonico progetto nucleare di Scajola, poi annullato dal referendum, si è assistito a una contesa tra la cordata di Ansaldo Nucleare e ditte prive di esperienza come la Monsud, a cui dalla nuova presidenza di Sogin è stato affidato nientemeno che il condizionamento dei rifiuti radioattivi della Trisaia.
Nel frattempo sono già scaduti i termini per il rientro delle scorie radioattive inviate in Gran Bretagna prima del 2000 e si avvicinano sempre di più le scadenza contrattuali con la Francia per il residuo combustibile inviato negli ultimi anni. In definitiva, pur in una fase di arresto definitivo degli impianti, ma di fervida attività rispetto al decomissioning e al trattamento delle scorie, un settore estremamente delicato come quello della sicurezza nucleare sta perdendo affidabilità. La vicenda dell’istituzione dell’Agenzia sulla sicurezza nucleare (quella di Veronesi) ha avuto un effetto devastante, perché istituendo questa struttura si è lasciato deperire l’Ispra e si è indebolita la sezione dell’Enea che si occupava di aspetti specifici della sicurezza nucleare. Tutto sta in capo ad una Sogin sempre più oggetto di critiche e di perdita di credibilità tra i tecnici e gli specialisti del settore.
A fronte della delicatezza del tema, sia sotto il profilo della salute che della portata degli impegni finanziari, la situazione si è fatta drammatica. Credo che occorra riprendere in maniera organica il dibattito sul nucleare italiano realizzato, con un duplice obiettivo: da una parte valorizzare il significato strategico della fine del nucleare in Italia nel nuovo contesto internazionale, dall’altro entrare nel merito dei problemi che ancora sussistono oggettivamente e dei problemi ulteriori che ha creato fin qui la gestione della Sogin.