Piergiorgio Morosini parla ai giovani di Libera a Reggio Calabria e critica i colleghi troppo esposti o che "si candidano per qualche partito". Proprio l'accusa spesso rivolta ad Antonio Ingroia, che ha coordinato l'inchiesta sul patto Stato-mafia all'epoca delle stragi
«Il magistrato fa politica? Sì, ogni giorno, ma nel senso originario di occuparsi della “polis”, cioè nell’interesse della collettività. E ciò è diverso dal magistrato che fa politica o si candida per qualche partito”. Parola del giudice Piergiorgio Morosini, gup al processo sulla trattativa Stato-mafia a Palermo. “Questo è un modello che non mi appartiene, che ritengo non faccia bene alla vita del Paese. Se certe scelte avvengono alla conclusione di alcune indagini e il magistrato decide di spendere la sua visibilità per “scendere in campo” e fare vita politica partitica, ciò può creare confusione nei cittadini e incidere sulla credibilità delle Istituzioni».
Morosini parla ai giovani di Libera Reggio Calabria: dopo aver incontrato in mattinata – su invito del Centro servizi per il Volontariato reggino – i detenuti del carcere di San Pietro e aver risposto ai loro quesiti sulla giustizia e la legalità, si è spostato nella sede dell’Associazione fondata da don Ciotti. Qui discute a tutto tondo non solo di antimafia, ma anche dei temi dell’attualità italiana. Nella piccola sala dell’appartamento che ospita Libera Reggio e che un tempo fu l’abitazione di don Italo Calabrò, amatissimo prete antimafia (fratello di Corrado), le sue parole rimbombano. Soprattutto in un momento in cui montano le polemiche sul possibile impegno politico di Antonio Ingroia, già procuratore aggiunto di Palermo, che delle indagini sulla Trattativa è stato il titolare.
«Un intervento dei magistrati nel dibattito pubblico è importante”, ha affermato ancora Morosini, “quando si tratti di esprimersi per esempio sulle iniziative che il Parlamento si accinge a prendere in materia di giustizia. Il contributo del magistrato, che è direttamente interessato alla questione può essere fondamentale per fare buone leggi», continua. Per poi spiegare ancora una volta perché, nell’iniziare il delicato processo che vede imputati, tra gli altri, l’ex ministro degli Interni Nicola Mancino, ha deciso di autosospendersi dall’incarico di segretario nazionale di Magistratura democratica: «Non potevo conciliare i due ruoli, sono troppo gravosi. Sono orgoglioso di appartenere a Md, ma io sono innanzitutto un uomo delle istituzioni, sono pagato per quello che faccio e ho il dovere di farlo al meglio. Credo, appunto, che la priorità, in questo momento, fosse lavorare per il processo».
E’ schietto, Morosini. I ragazzi lo ascoltano attenti, accanto a loro c’è anche un testimone di giustizia, vittima di un attentato poco tempo fa. «Le mafie vanno combattute con le regole dello Stato di Diritto, con gli strumenti che la legge offre. Solo così possiamo accreditare un modello di Stato da contrapporre al modello negativo presentato dalle organizzazioni criminali», prosegue. E ancora: «Il contrasto alle mafie non può essere solo repressione, ma deve anche essere prevenzione e tutela dei diritti, e proposte positive per il futuro». Morosini torna quindi ad occuparsi delle scelte politiche: «Il 41 bis? Era stato introdotto per impedire ai boss di comunicare con l’esterno e impartire istruzioni. Questo pericolo c’è tuttora, anzi c’è soprattutto ora che la ’ndrangheta e la camorra in particolare sono in espansione, dunque è uno strumento che va certamente mantenuto in Italia».
E sulla mafia al nord, lui che viene da Cattolica, ma a Palermo vive e lavora ormai da quasi vent’anni, dice: «Parlare di “infiltrazioni” al nord è quasi un modo razzista di affrontare la questione, è come porre un primato della regione infiltrata rispetto a chi la infiltra. Se la ’ndrangheta e la camorra in primis sono ormai così salde nel settentrione è perché ci sono imprenditori che la mafia la chiedono, la cercano, per lucrare il più possibile sui loro affari». «E la legge anticorruzione?», chiede ancora un ragazzo. «Un’occasione persa, si poteva fare molto di più, per esempio agendo sui tempi di prescrizione, rendendoli molto più lunghi, visto che la corruzione è un reato complesso da provare. Un’occasione persa perché in Italia è troppo forte l’alleanza tra corruttore e corrotto. La corruzione, però, distrugge i sogni dei giovani, che credono ancora di poterne realizzare qualcuno solo con il merito e l’impegno, ma si vedono la strada sbarrata dalle raccomandazioni». La sfida, dunque – conclude –, è «nella prossima legislatura. E’necessario un intervento serio che ridia speranze al loro futuro».