Ricordare Pier Paolo Pasolini come un preveggente semidio, va detto, è diventato da un ventennio uno sport elitario praticato da qualsiasi assessore, consigliere e personalità progressista che in Italia si rispetti. Un feticcio per l’aneddotica, un’etichetta subliminale: “Pasolini diceva…”, “Pasolini sapeva…”. Inutile poi elencare in quanti l’hanno politicamente tirato per la giacchetta, l’hanno fatto parteggiare per qualcuno contro qualcun altro, usato per fini commerciali. Il prologo, oggettivamente inconfutabile, finisce qui. Anche se contenutisticamente la pratica richiama le infinite giaculatorie attorno alle figure, per esempio, di Fabrizio De André e Giorgio Gaber. Nulla di male. Solo che attorno a Pasolini, scomparso oramai più di 37 anni fa, la memoria storica degli italiani, anzi forse la pancia degli italiani non ha ancora fatto bene i conti. Prova ne è che quando si passa alla cassa di qualcosa di moralmente innocuo, ma di simbolicamente rilevante, come l’intitolazione di una strada, la tragedia attorno al nome di Pasolini si compie.

Basti pensare che perfino la sua Bologna, sua di Pasolini, quella città che lo ha visto nascere, crescere, formarsi culturalmente, che gli ha fatto probabilmente intuire l’immensa necessità di un pensiero libero e rigoroso tra le maglie silenziosamente censorie del conformismo, ecco questa città fatica continuamente a ridargli indietro quello che si meriterebbe: un sincero rispetto. L’intitolazione di una via o di una piazza, però, è sempre stato un problema. Ci provarono quelli del Partito Radicale un anno fa occupando per una sera via Borgonuovo, dove il poeta nacque nel 1922, suggerendo la nuova dicitura “via Pasolini”. Poi il terrificante giardino di sedici ettari che, con tutto il rispetto per gli abitanti del quartiere Pilastro, è di una tristezza incommensurabile.

Ora, questa nuova piazzetta, anzi piazzettina, antistante la Cineteca di Bologna, anzi il cinema Lumiere e la biblioteca Renzo Renzi, dietro l’angolo di un angolo di una piazza piccolina. Bene, bravi, encomiabile lo sforzo, la targa, il discorso e la commozione. Però c’è qualcosa di umanamente grigio e grumoso che aleggia attorno a questo fantasma scomodo. Una sorta di ripetizione visiva continua di quell’infame luogo di morte che è l’Idroscalo e di quella esteticamente orrenda statuona che Nanni Moretti ha filmato in Caro Diario. Come se a Pasolini spettasse un angolino un po’ nascosto, uno slargo improvviso difficile da memorizzare. Mai uno spazio “vivo”, di passaggio costante, concretamente urbano, qualcosa che ci permetta di dire: “Ci vediamo in piazza Pasolini prima di andare in pizzeria”. Insomma la parificazione tra memoria storica, pratica culturale elitaria e quotidianità cittadina subirebbe uno scossone. Solo così il nome di Pasolini diventerebbe “normale”, quotidiano, concetto condiviso. Sicuri però che nascerebbe un comitato di indignati per staccarne subito la targa a martellate.

P.s. in Emilia Romagna via Pasolini la si trova in alcuni paesi dell’hinterland bolognese, in qualche zona industriale di frazioni di pianura; mentre tra tutti i capoluoghi più importanti d’Italia solo Roma gli dedica uno stradino tortuoso zona Monte Mario, una laterale senza uscita di via Trionfale… 

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