Il tema del maternity blues esce dai libri psicologia per trovare posto negli schermi e sui palcoscenici d’Italia, anche nella sua versione più estrema: l'uccisione del figlio da parte della madre. Già raccontato dal film di Fabrizio Cattani presentato a Venezia, è anche al centro di "Tutto parla di te" di Alina Marazzi e dello spettacolo scritto da Grazia Verasani per la regia di Elena Arvigo in scena fino al 16 dicembre al teatro Argot di Roma
È l’anno del maternity blues. Finalmente il tema più indicibile è uscito dai libri psicologia per trovare posto negli schermi e sui palcoscenici d’Italia, anche nella sua versione più estrema: l’infanticidio. Il tema dell’ambivalenza materna, già raccontato da “Maternity blues” di Fabrizio Cattani presentato a Venezia, è anche al centro di “Tutto parla di te” di Alina Marazzi, la giovane regista de “Vogliamo anche le rose”. Che ha scelto come protagonista del suo film l’intensa Charlotte Rampling, un’attrice con un vissuto personale tra l’altro vicino al tema del film.
Ma l’ombra legata alla nascita arriva anche a teatro, con lo spettacolo scritto da Grazia Verasani per la regia di Elena Arvigo, “Maternity Blues (from Medea)”, in scena fino al 16 dicembre al teatro Argot di Roma.
Come nei film di Cattani e Marazzi, anche qui il tema della cosiddetta “depressione post partum” perde la sua gelida dimensione clinica, per essere raccontato attraverso i vissuti di quattro donne. Diverse l’una dall’altra, come sono diverse le protagoniste Vincenza, Marga, Rina, Eloisa (Sara Zoia, Elodie Treccani, Xhilda Lapardhaja, Elena Arvigo), finite in un ospedale psichiatrico per aver ucciso i propri figli (lo spettacolo si ispira alla realtà dell’ospedale di Castiglione delle Stiviere, che a tutt’oggi ospita anche donne infanticide.
Le quattro donne si ritrovano insieme dopo che tutto è compiuto, in uno spazio vuoto, dove “si tratta solo di resistere”, senza soccombere all’impietoso giudizio altrui (Eloisa: “Per il mondo siamo sbagliate ma nessuno si chiede se sia sempre giusto mettere al mondo qualcuno”. Vincenza: “Io ho abortito, allora sono una pluriassassina?”). Invano qualcuno riuscirà a trovare nelle loro biografie una qualche “essenza” patologica che spieghi l’accaduto: Marga sposa infelice, Vincenza donna consapevole e razionale con due figli cresciuti normalmente, Rina una ragazza albanese rimasta incinta di un uomo sposato e violento, Eloisa una donna che non riesce a coronare il suo sogno di attrice e vive tra droga e locali.
Anche i ricordi degli eventi sono confusi, forse inventati, a volte cancellati. Nessuna sa esattamente cosa sia successo, quando e soprattutto perché, anche se quando affiorano i ricordi (“Non bisogna dimenticare”) c’è solo una possibile reazione: un pianto disperato e inconsolabile, che le altre cercano di lenire con un gesto-immagine che resta nella mente: un lenzuolo ricamato con il quale viene coperta e accarezzata ad un certo punto Rina, alla quale le altre mormorano una sorta di nenia per confortarla e tentare di lenire il dolore.
“Ero stata brava, li avevo accontentati tutti, avevo avuto successo, mia suocera mi faceva regali”, racconta Marga. Senza ideologia, unicamente attraverso le loro storie, le quattro donne contestano la gravidanza vissuta come una scelta imposta, all’interno di un matrimonio infelice (“Per mio marito il senso della vita era andare a pesca”); la retorica della maternità come una scelta d’amore naturale (Vincenza: “È un istinto, ma non c’entra l’amore”); l’idea che fare la madre sia una cosa innata (Marga: “Mi dicevano: ti verrà naturale quando lo vedrai”; Eloisa: “Chiedere a me di fare la madre è come chiedere a una mucca di fare le tabellone”). E avanzano inconsapevolmente persino l’ipotesi estrema che sia meglio togliere la vita che darla (Eloisa: “Se la sua capanna fosse stata bruciata, a Gesù sarebbero stati risparmiati i chiodi”), come se l’unica morte autentica fosse quella da piccoli, come dice ad un certo punto Vincenza: “Ci si può fidare solo degli animali e dei bambini, perché muoiono nello stesso modo, senza essere sorpresi”.
Lentamente, insieme al sostegno delle compagne, attraverso la possibilità di essere se stesse (“Nessuno ti giudica qui”, è la prima cosa che viene detta alla nuova arrivata) sembra avviarsi una nuova storia comune (Marga: “Qui finalmente, ho ricominciato a sentire”). Alla dimensione della semplice sopravvivenza comincia ad intrecciarsi il tentativo di ricominciare in modo diverso: come nel caso di Rina, che scrive una commovente lettera a un ragazzo che la vuole conoscere, perché, dice “non posso vivere solo con i desideri che ho, fanno schifo”.
Dopo un Natale festeggiato insieme, l’evento-simbolo di una famiglia che loro non hanno più, tutte si sentono più forti, quasi che insieme avessero potuto finalmente provare a elaborare l’impossibile. È moltissimo per alcune, troppo poco per altre. Perché la verità dello spettacolo resta soprattutto quella affermata da Vincenza, “Se ammazzi tuo figlio, i morti sono due”. Forse, invece che madri assassine, bisognerebbe chiamarle madri suicide.