“L’Italia è uno dei Paesi dove internet costa di meno in assoluto”. E’ quanto sostiene il presidente di Telecom Italia, Franco Bernabé, in queste settimane alle prese con le accuse dell’Antitrust che sta indagando il gruppo di telecomunicazioni per presunti abusi che, tra il 2009 e il 2011 avrebbero avuto l’effetto di rallentare processo di crescita dei concorrenti nei mercati dei servizi di telefonia vocale e di accesso a internet a banda larga.

Ma Bernabè più che all’Authority della concorrenza ha risposto indirettamente allo studio annuale della Ofcom, l’autorità inglese per le telecomunicazioni, che solo una manciata di giorni fa ha evidenziato come una famiglia con un contratto di connessione a banda larga con un uso di base, solo per Internet, arrivi a pagare nel nostro Paese 30,67 euro al mese contro i 24,5 euro della Francia e i 19,62 euro della Gran Bretagna. Tutto questo, naturalmente, senza tener conto delle differenze di potere di acquisto e di stipendi nei diversi Paesi europei.

Eppure per il presidente di Telecom gli attuali livelli tariffari, nella cui giungla è comunque complesso per un consumatore medio districarsi e comprendere il miglior package in funzione dell’uso, sono un male necessario per sostenere gli investimenti. “Un abbassamento ulteriore dei prezzi limita la capacità di investimento e quindi limita la qualità futura dei servizi”, ha dichiarato ai microfoni di Radio24 confermando che difficilmente nel nostro Paese i prezzi della banda larga potranno scendere ai livelli dei cugini d’Oltralpe. Tanto più per il fatto che Telecom Italia sia proprietaria della rete di rame e che quindi gli altri operatori siano obbligati ad averla come interlocutore unico nella migrazione della clientela.

Per questo il presidente di Telecom è così legato alla rete che rappresenta un forte vantaggio competitivo per la società. Tuttavia di recente Bernabé ha valutato l’ipotesi di scorporo, che, come da lui stesso ammesso in un’intervista a Il Messaggero, verrà fatto solo “se ci sono significativi vantaggi regolamentari“. Per il presidente di Telecom, insomma, la separazione della rete con la creazione di un’apposita società assieme alla Cassa Depositi e Prestiti per portare avanti il progetto di sviluppo della fibra in Italia, si può fare, ma “deve esserci un incentivo forte sia per la società che nascerà che per quella che resta. Se, invece, tutto rimane come è oggi, allora viene meno il presupposto essenziale”.

Anche perché Telecom si trova in una fase strategicamente molto delicata. Innanzitutto i soci di Telco, Intesa, Mediobanca e Generali, oltre alla spagnola Telefonica, vorrebbero poter monetizzare il proprio investimento, ma ad un prezzo superiore a quello di mercato per il quale è difficile se non impossibile trovare un acquirente. In secondo luogo, i 30 miliardi di debito di Telecom non aiutano. Soprattutto se ci sono in vista nuovi pesanti investimenti da fare nella fibra.

Se ne sono accorti gli analisti di Moody’s che nei giorni scorsi hanno attribuito a Vodafone un profilo di credito migliore rispetto a quello delle concorrenti Telecom Italia e Telefonica.  Anche se osservano che il gruppo di Bernabè compensa la sua limitata esposizione geografica e una situazione debitoria più fragile con il ruolo di attore principale nel mercato italiano e margini operativi molto forti, i più alti tra gli operatori di telefonia europei coperti dal giudizio di Moody’s.

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