Sul Corriere della Sera del 10 dicembre Ichino e Terlizzese auspicano che l’università sia al centro del dibattito elettorale a partire da una verità non controvertibile: che “in Italia i poveri pagano l’università ai ricchi”. “È un trasferimento inaccettabile, […] odioso e paradossale”, scrivono, dando una serie di dati e suggerimenti per la sua correzione. Il problema è che i dati presentati non sono veritieri e si è travisato il ruolo del finanziamento statale dell’università avanzando proposte demagogiche.
Ichino e Terlizzese sostengono che finanziare l’università tramite la fiscalità generale equivale a far pagare l’università ai poveri, in quanto le famiglie con reddito fino a 40,000 euro, essendo il 93% dei contribuenti e pagando il 54% del gettito Irpef, contribuiscono in tal proporzione al finanziamento statale dell’università (Ffo), che calcolano essere di 4,9 mld di euro. Dobbiamo dire anzitutto che l’Ffo ammonta a 6,8 mld di euro, non 9,1 mld di euro come risulta dai calcoli dei due autori, dunque il 54% del Ffo ammonta a 3,8 mld e non a 4,9 mld di euro. Non vogliamo fare ironia su un errore del genere: è evidente, infatti, che si tratta di due ordini di grandezza sostanzialmente differenti, e crediamo che sia piuttosto grave che la formulazione di politiche universitarie venga affidata a specialisti che non sanno esattamente a quanto ammonta l’Ffo.
Se fosse vero come scrivono i due autori (e non lo è) che la spesa universitaria è pagata esclusivamente tramite l’Irpef più le tasse universitarie dirette in proporzione pari al 20% del Ffo, il costo medio per studente dell’università ammonterebbe a 3800 euro per studente (6.8 mld euro/1.8 mln studenti), l’aggiunta del 20% tramite tasse dirette porterebbe la spesa media a 4500 euro per studente. I redditi superiori a 100,000 euro pagherebbero per l’Ffo circa 1500 euro/anno tramite Irpef (vedi qui per gli scaglioni di reddito) e circa 2500 di tasse dirette (l’esatto valore varia da ateneo a ateneo), gli studenti provenienti da famiglie con reddito intorno ai 40,000 euro che vanno all’Università, pagherebbero 400 euro di Irpef e 1000 euro in tasse dirette, i redditi intorno ai 20,000 euro pagherebbero intorno ai 100 euro di Irpef e meno di 1000 euro di tasse dirette. Da notare che mentre l’Irpef è pagata da tutti i contribuenti le tasse universitarie solo da coloro che frequentano l’università. Dunque in questa situazione i redditi inferiori a 40,000 euro/anno sarebbero sussidiati dalla fiscalità generale per una parte consistente del costo dell’università. E’ evidente che aumentare, in nome dell’equità retributiva, le tasse universitarie a circa 10,000 euro a tutti gli studenti, abbienti e non, come proposto dagli autori è semplicemente un nonsense.
La situazione reale è però differente. La Spending Review ha modificato il DPR 306 del 25 luglio 1997, che imponeva agli atenei di mantenere le tasse universitarie entro il limite del 20% del Ffo. Significa che l’affermazione per cui “la loro somma” [ndr: delle rette universitarie], “per legge, non può superare il 20% dei bilanci degli atenei”, è falsa. Non vi è più un limite al 20% alla contribuzione studentesca al Ffo, le tasse sono già, di fatto, liberalizzate, sebbene siano bloccate per i prossimi tre anni per gli studenti al di sotto dei 40.000 euro di Isee. In questa situazione, il costo per quel 93% dei contribuenti con redditi inferiori a 40,000 euro/anno diventerà ben maggiore di quello attuale, e questa sì è una vera ingiustizia.
Corrette le premesse e le imprecisioni nei dati, Ichino e Terlizzese su una cosa hanno ragione: c’è il rischio, in Italia, di un “trasferimento inaccettabile, […] odioso e paradossale” di risorse dai poveri verso i ricchi, ma questo rischio nasce precisamente dalle loro proposte. Ichino e Terlizzese denunciano che, “in proporzione al loro reddito, i più ricchi pagano più Irpef, ma non in misura tale da compensare l’uso maggiore che essi fanno dell’università”. Ecco l’ingiustizia. La stessa ingiustizia avviene con chi paga la spesa sanitaria senza fruirne, magari perché sano. Denunciare come ingiusto il contributo all’istruzione o alla sanità pubblica è demagogico e immorale, perché fa leva su un malessere diffuso (che peraltro nasce precisamente dallo smantellamento delle tutele e dello stato sociale), per minare alla base il concetto di bene pubblico e limitare la fruizione di beni e servizi ai soli paganti, cioè a chi se lo può permettere.
Di fatto, c’è una sola soluzione per impedire che chi paga l’università tramite la fiscalità generale non ne tragga diretto beneficio, e questa soluzione non è né alzare le tasse universitarie a 7000 euro a studente, come suggerisce l’articolo di Francesco Giavazzi che secondo i due autori non va messo in dubbio, né esplicitare che “la scuola è e deve essere per tutti […]. L’università è altra cosa”. L’unica soluzione è stimolare chi paga l’università tramite la fiscalità generale a trarne diretto beneficio, incentivare tutti allo studio terziario e assiscurarsi che tutti gli studenti “meritevoli e privi di mezzi” vincitori di borsa ne diventino effettivamente beneficiari, e porre fine a quella anomalia tutta italiana che sono gli “idonei senza borsa”.
Garantire a tutti i vincitori la fruizione di una borsa offrirebbe un minimo di coerenza a chi da anni si proclama difensore del merito. In Inghilterra, da quando il ricorso a prestiti d’onore ha reso possibile l’aumento delle tasse universitarie a 10 mila euro l’anno, un terzo degli studenti inglesi ha scelto di non frequentare l’università, scrive un rapporto della Mckinsey. È evidente che in Italia, paese che ha la metà dei laureati (nella fascia di età 25-34 anni) rispetto agli altri paesi europei; che si colloca, secondo l’Ocse, per spesa rispetto al Pil in istruzione superiore 32esima su 37 paesi (30% in meno della Francia); e che ha un mercato del lavoro assai meno reattivo degli altri paesi occidentali, continuare a tagliare sulla spese universitaria e aumentare le tasse universitarie equivale semplicemente una scelta suicida.
*Questo articolo è coautorato da Francesca Coin e Francesco Sylos Labini